Sono trascorsi diciotto mesi dalla prima visita ufficiale del premier Giuseppe Conte alla Casa Bianca di Donald Trump e ancora oggi i risultati di quel faccia a faccia si fanno sentire. Era il 30 luglio del 2018 e Conte, allora a capo del governo gialloverde, aveva posto sul tavolo, fra gli altri, il dossier libico, chiedendo un più accentuato supporto da parte americana delle esigenze italiane, dalla gestione dei flussi migratori alla difficile mediazione per una soluzione politica al conflitto. In conferenza stampa congiunta da Pennsylvania Avenue i due presidenti annunciarono la nascita di una cabina di regia Italia-Usa per il Mediterraneo. Una sinergia di esperti ed expertise di entrambi i Paesi per studiare tanto il caos tribale libico quanto le altre situazioni di tensione che destabilizzano la regione.
In questi giorni a Roma si è tenuta al ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale la seconda sessione plenaria a livello alti funzionari del Dialogo Strategico Italia-Usa. Prendendo parte a due giornate di lavoro, l’8 e il 9 gennaio, divisi in gruppi tematici, e a una colazione con l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia Lewis Eisenberg, funzionari e rappresentanti di diverse amministrazioni di entrambi i Paesi,soprattutto Esteri Difesa, si sono riuniti alla Farnesina per fare un bilancio di un anno e mezzo di collaborazione sui temi in cima all’agenda di politica estera italiana cui l’amministrazione Usa è tutt’altro che estranea.
Crisi regionali, terrorismo, cooperazione nel campo della sicurezza nel Mediterraneo, ma anche una rinnovata collaborazione della Nato con i Paesi del Sahel e una soluzione politica alla guerra che alle porte di Tripoli vede scontrarsi il Feldmaresciallo della Cirenaica Khalifa Haftar con il premier del governo riconosciuto dall’Onu Fayez al-Serraj. E ancora, si legge sul sito della Farnesina, “altre sfide strategiche globali, in particolare quelle poste da Paesi che non condividono la piena adesione di Italia e Stati Uniti ai principi della democrazia, della libertà individuale, allo stato di diritto e al rispetto dei diritti umani”.
Per la Farnesina, fra gli altri, presenti il viceambasciatore italiano negli Stati Uniti Maurizio Greganti, il vicedirettore generale per gli affari politici e la sicurezza Luca Gori e il capo ufficio Nato Fabio Rugge. Un evento non solo di protocollo. Perché dimostra che tra Washington e Roma, oltre al reciproco “impegno a rafforzare i rapporti bilaterali”, c’è un dialogo sotterraneo anche su tematiche, la sicurezza libica e l’Africa settentrionale, talvolta troppo frettolosamente ritenute secondarie dall’amministrazione Trump. Trattasi di un lavoro di “sherpa” per consolidare la relazione bilaterale e accendere i riflettori sul fianco Sud dell’Alleanza atlantica che per ragioni geografiche e storiche vede nell’Italia un potenziale partner privilegiato degli americani.
Se è vero che oggi altri dossier, su tutti l’Iraq, distolgono risorse e attenzioni dal Dipartimento di Stato Usa, è altresì vero che la Casa Bianca e gli apparati dell’amministrazione non sono sordi alle esigenze italiane nella regione. In questi tempi in cui l’Italia ha bisogno di amici per dire la sua sul processo libico aver lanciato un anno e mezzo fa una cabina di regia sulla Libia con lo storico alleato americano potrebbe rivelarsi una scelta previdente.
Lo ha ricordato di recente su Formiche.net il ricercatore della Sapienza Gabriele Natalizia. Nessuno ignora che per l’amministrazione Trump come per quella di Barack Obama prima di lui l’area dell’Indo-Pacifico abbia la precedenza strategica su quella Mena. Questo non significa però che gli Stati Uniti vogliano abbandonare il Mediterraneo: “Al contrario, significa che non desiderano più impegnarsi in irrealistiche operazioni di ingegneria politico-sociale come fatto dall’amministrazione Bush, né sobbarcarsi da soli i costi del mantenimento dell’ordine, secondo il principio del leading from behind“.
L’Italia può avere un ruolo? Sì, e il dialogo strategico sembra confermarlo. D’altronde, ha sottolineato Natalizia, gli americani sanno che l’Italia è per vocazione una potenza mediterranea e se Roma “si dimostrasse disponibile a investire di più nel ripristino dell’ordine in Libia, Washington la considererebbe quale sua migliore opzione e, probabilmente, sarebbe disponibile a offrirgli copertura in termini di legittimità e di risorse, così come ad accettare una diminuzione dei suoi impegni altrove”.
In questa direzione vanno lette le prossime visite di alti esponenti del governo italiano a Washington Dc. Soprattutto quelle in cantiere del ministro della Difesa Lorenzo Guerini e del ministro agli Affari Europei Enzo Amendola, che in questi mesi hanno più volte sottolineato come l’asse con l’alleato d’oltreoceano possa rinsaldare la posizione italiana nel Mediterraneo.