Giampaolo Pansa, morto ieri a Roma all’età di 84 anni, è stato nel giornalismo e nella divulgazione storica quel che Renzo De Felice è stato nella storiografia accademica. Tanto chiaro e preciso, con grandi capacità di sintesi, il primo, quanto analitico e minuzioso fino a perdersi nei dettagli il secondo. Entrambi, ci hanno fatto vedere il fascismo, l’antifascismo, la Resistenza, in un’ottica diversa, meno faziosa e manichea di quella propostaci dalla vulgata corrente. Ed entrambi di formazione e idee di sinistra, hanno poi subito l’ostracismo e gli attacchi di quella parte politica.
Pansa aveva dalla sua tutto il pedigree del bravo e allineato giornalista di sinistra: laureatosi con una tesi sulla Resistenza con Alessandro Galante Garrone, il più severo custode della tradizione azionistica torinese, aveva iniziato la carriera giornalistica nel 1961 a La Stampa di Giulio De Benedetti. Dopo essere passato per Il giorno, Il Messaggero, il Corriere della sera, era approdato infine a Repubblica (e a L’Espresso) poco dopo la fondazione del quotidiano di Eugenio Scalfari. Del quale divenne nel 1978 vicedirettore e quasi una sorta di alter ego del fondatore, pur nella profonda diversità del carattere e della tempra umana. Pansa conservava infatti una schiettezza contadina (era orfano di una famiglia poverissima del Monferrato) che spesso lo portava a fraintendere o a non capire (come ha ricordato oggi Vittorio Feltri) le vicende della politica, ma che pure era alla base dei sui articoli sferzanti, sarcastici, irriverenti, sui protagonisti della vita pubblica italiana.
Spesso quei leader, e soprattutto leaderini, li designava con nomignoli e ne coglieva tutte le debolezze umane in una sorta di ideale “bestiario” (così si intitolava la sua rubrica più famosa) della politica italiana. Come inviato speciale e come autore di inchieste e reportage Pansa dava il meglio di sé, e questo lo aveva fatto diventare un punto di riferimento nel giornalismo. Fino a quando, all’inizio del nuovo millennio, la sua vicenda umana e professionale non cambiò radicalmente. Preceduto da qualche libro che si era approssimato al tema, Pansa nel 2003 mandò in libreria per Sperling & Kupfer “Il sangue dei vinti”, un saggio storico documentato e brillante su un tema che era stato del tutto rimosso dalla retorica resistenziale: le esecuzioni sommarie e i crimini efferati e disumani compiuti dai resistenti nei confronti dei fascisti, o presunti tali, e anche di partigiani non comunisti, dopo il 25 aprile 1945, cioè a guerra finita.
Intrecciando commoventi storie personali con un racconto che riesce a collocare quelle vicende in un clima di “guerra civile” permanente e in uno specifico contesto geografico (il cosiddetto “triangolo della morte” in Emilia Romagna), Pansa mette in discussione vari miti: quello dei resistenti sempre e comunque “buoni” e “giusti”, quello dei comunisti come Padri della democrazia, quello dei “fascisti” come individui sempre senza onore e disumani. Più in prospettiva, con l’opera di Pansa, a cui arrise un vasto successo commerciale, veniva messo in discussione proprio quel mito fondativo della Repubblica, cioè l’antifascismo, che in sé preso, cioè senza altre distinzioni e specificazioni, mette insieme sia persone che erano sinceramente democratiche sia altre che volevano semplicemente sostituire ad un regime illiberale un altro di diverso colore ma pur sempre tale.
E infatti gli assassini del “triangolo della morte” volevano, nell’indifferenza del Partito per le loro azioni, quanto non addirittura (in alcune frange) con la sua complicità, continuare ancora nella lotta partigiana avendo concepito la Resistenza e la sconfitta del fascismo solo come la prima fase di una battaglia che doveva portare all’instaurazione anche in Italia di un regime bolscevico (più o meno come era avvenuto in un altro periodo rimosso della storia patria, quel “biennio rosso” seguente alla Prima guerra mondiale che Pansa aveva messo a fuoco in un libro immediatamente precedente: Le notti dei fuochi del 2001).
Da qui il mito della “rivoluzione tradita” o “incompiuta” che percorrerà tutta la storia repubblicana, attraverserà il Sessantotto, e si ritroverà poi negli anni del terrorismo brigatista che il nostro aveva vissuto come inviato speciale al Corriere della sera di Piero Ottone. Vuoi per il successo editoriale, vuoi per le reazioni inconsulte di storici e intellettuali di sinistra (che agli argomenti e ai fatti documentati nel libro risposero genericamente parlando di “revisionismo” o di “memoria infangata”), Pansa prese allora così tanto gusto al tema da approfondirlo in una serie di volumi successivi che fecero di lui, se non il più importante, senza dubbio il più influente rappresentante del “revisionismo storico” (che poi altro non era che l’opera di trapasso di certe vicende nazionali dall’ambito della mitologia a quello più prosaico della ricerca storica e documentale). Particolarmente significativa e ben fatta è, ad avviso del sottoscritto, Bella ciao. Controstoria della resistenza, che uscì nel 2015.
Allontanato, o allontanatosi (poco importa), dal gruppo de L’Espresso, in cui era sempre più isolato, critico feroce delle ipocrisie e delle menzogne che avevano corso a sinistra (La Grande bugia, 2006) o fra I gendarmi della memoria (2007), Pansa approdò naturaliter nell’area della stampa di destra o berlusconiana (Il Giornale, Libero, ecc.). Sempre dalla parte dei poveri e della gente semplice, egli però restò sempre inorganico, servitore della verità potremmo dire piuttosto che di una parte politica. “Berlusconiano” in un senso molto lato come tanti, come tanti non capì l’avvento di Matteo Salvini sulla scena politica italiana. Il capitano, che ultimamente era diventato la sua “bestia nera”, rappresentava ormai un’altra Italia e un’altra idea di politica rispetto a quella in cui, seppure come voce fuori dal coro, Pansa era cresciuto e maturato nel secondo dopoguerra (Matteo Salvini: ritratto irriverente di un educatore autoritario è l’ultimo suo libro, dato alle stampe nel 2019).
Aveva fatto in tempo, da qualche mese, a ritornare al Corriere della sera, quasi a testimoniare con il suo continuo errare da una testata all’altra la sua libertà e onestà intellettuale. Quella davvero non potrà negargliela mai nessuno.