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Ritorno al continente liquido

Il Mediterraneo è, secondo la nota e felice definizione di Fernand Braudel, un “continente liquido”. Un continente fortemente e densamente abitato ai suoi margini e nelle sue isole; e i suoi margini sono – come in un “negativo” fotografico – le sponde di oceani terrestri che per lunghi secoli sono stati sconosciuti o inesplorati nella loro maggior parte. Al punto che si potrebbe sostenere che la civiltà dei tre continenti che sul Mediterraneo convergono si sia irradiata da esso. Ma questa irradiazione ha prodotto un alto numero di culture, sempre l’una all’altra collegata, eppure distinte e diverse: e ciascuna di loro ha seguito una sua specifica dinamica, correlata e intrecciata alle altre.
Nessuna identità è, per sua natura, perfettamente conchiusa su se stessa; tutte le identità sono imperfette, e hanno bisogno di altre identità per definirsi. Ogni civiltà, come ogni persona, compartecipa di più identità e ha bisogno della totalità di tutte quelle che la riguardano per definirsi. È per questo che un’indagine sulle identità etniche, linguistiche, storiche, istituzionali e religiose che compongono nella loro varietà la più ampia “identità mediterranea” deve fondarsi su un forte senso della dinamica di ciascuna di esse e di tutte nel loro complesso.
 
L’identità storica delle culture mediterranee, nel loro complesso, è più articolata e flessibile – quindi anche più forte e più radicata – di quanto non siano altre forme identitarie della quale oggi troppo si parla, come quella “europea” e quella “occidentale”. Di più: entrambe queste ultime – per non parlare di quelle religiose, specie e soprattutto quelle connesse con il monoteismo di ceppo abramitico nelle sue tre varianti – hanno proprio nel Mediterraneo il “luogo” geostorico originario.
Lo studio delle identità mediterranee e della loro rispettiva e generale dinamica non può non essere interdisciplinare: in esso sono chiamate in primissima istanza a convergere e ad esso sono chiamate a collaborare le discipline a carattere geo-grafico-ecologico, storico, etno-antropologico, sociologico, glotto-linguistico, artistico-letterario. Un tale incontro non può essere fondato ex nihilo: esso deve nascere su un terreno che non sia soltanto tecnicamente attrezzato, bensì anche storicamente disposto. Occorre pertanto un grande e consolidato centro di studi che si fondi su una consolidata esperienza e che sia in grado di catalizzare un forte interesse internazionale anche per il messaggio simbolico che da esso promana.
 
La vita sulla terra della specie umana, dell’homo sapiens, data come sappiamo da un tempo incerto e lontano, che oscilla tra i quattro e un milione di anni fa, e gli studiosi non hanno al riguardo mai raggiunto un definitivo accordo; tuttavia la sua “storia” vera e propria, intesa come coscienza critica del proprio passato, come capacità di organizzare e di articolare la memoria collettiva disciplinandola e tramandandone sistematicamente il ricordo, pertanto di affidare al futuro monumenti e documenti che non siano più semplici, casuali e involontarie tracce del proprio passaggio sulla terra, quella storia non data ad oltre seimila anni or sono circa, e non si è davvero criticamente sistematizzata troppo prima di appena due millenni e mezzo or sono. Ebbene, le civiltà “superiori” – nel senso che abbiamo or ora assegnato a tale aggettivo – e quindi la storia, che di esse è aspetto e funzione, nascono e prosperano regolarmente e, si direbbe, esclusivamente attorno alle sponde di un mare mediterraneo, di uno specchio d’acque in comunicazione con l’oceano ma circondato da terre e magari punteggiato da isole che permettano una praticamente costante navigazione “a vista”. In ordine cronologico, il primo mare chiuso ad assistere alla nascita di queste civiltà è stato appunto, più o meno seimila anni fa, il nostro mediterraneo, il “Mediterraneo” per eccellenza e per definizione. Altre civiltà superiori sono nate più tardi, in tempi diversi, incentrate tutte sugli altri “mediterranei” presenti nel pianeta, pochi in fondo: il sistema Mar Giallo-Mar Giappone-Mar Cinese Orientale, il Mar Cinese Meridionale con l’annesso indonesiano, il Mare Arabico percorso dai monsoni con il suo parallelo Golfo del Bengala, il sistema Golfo del Messico-Mar dei Caraibi-Mar delle Antille, il Mar Baltico.
 
E veniamo quindi al nostro caro Mediterraneo: a un mare temperato, dalle acque tiepide, dal regime climatico variabile e capriccioso magari ma nel complesso clemente, dai venti e dalle correnti che i popoli rivieraschi da millenni conoscono; un mare sviluppato prevalentemente nel senso della longitudine – tra il quinto meridiano ovest e il quarantaduesimo est, ma che pure, dal suo estremo nord del Mar d’Azov al suo estremo sud del Golfo della Sirte, raggiunge anche una buona estensione latitudinaria, compresa tra il quarantasettesimo e il trentesimo parallelo nord. Un mare ben distinto in tre ampi bacini – l’occidentale, l’orientale e il Mar Nero – comunicanti tra loro attraverso due sistemi di stretti: il Canale di Sicilia e lo Stretto di Messina, che pone in comunicazione i bacini occidentale e orientale; e il sistema Dardanelli-Mar di Marmara-Bosforo, che collega il Mediterraneo orientale al Mar Nero. Oltre alla grande porta storica aperta verso l’Atlantico, le Colonne d’Ercole-Stretto di Gibilterra, il Mediterraneo era collegato al mar Rosso e quindi all’Oceano Indiano anche prima che si scavasse il Canale di Suez, dal momento che le merci provenienti via mare dalla lontana Asia, cioè dal subcontinente indiano e dal sud-est indonesiano, risalivano la Penisola Arabica lungo la cosiddetta Via dell’Incenso o delle Spezie sino agli empori siriaci, o raggiungevano il delta del Nilo anche percorrendo via terra le piste carovaniere che dai porti della costa occidentale del Mar Rosso, attraverso il cosiddetto “Deserto orientale” ad est del Nilo là dove, più o meno all’altezza delle antiche Tebe e Luxor – che difatti non a caso in quell’area vennero fondate – la distanza tra il fiume e il mare era più breve e la navigazione fluviale, a nord della prima Cateratta, agevole. A loro volta, agli empori siriani facevan dal canto loro capo gli itinerari terrestri della Via della Seta, che giungevano peraltro anche al Golfo persico/arabico e all’Oceano Indiano ma che, verso ovest, servivano attraverso i diverticoli anatolico, armeno e kurdistano-azerbajainico anche i porti meridionali del Mar Nero e del Mar Caspio: due mari “interni” questi ultimi separati sì dall’area caucasica, ma collegati attraverso i bassi corsi entrambi navigabili del Don e del Volga, che si avvicinano fino a restar separati solo per un centinaio di chilometri, una distanza questa che si colmava con relativo agio anche prima che nel 1952 venisse definitivamente aperto quel Canale del Don che fu l’ultima grande opera del maresciallo Stalin ma che realizzava un sogno già cullato dal sultano Solimano il Magnifico.
 
Se il nesso Mar Nero-Mar Caspio “prolunga” longitudinariamente il Mediterraneo fin quasi al cinquantacinquessimo meridiano est, spingendolo pertanto addentro fin alla profonda Asia centrale, il sistema dei grandi fiumi russi permette la navigazione quasi ininterrotta dal Mar d’Azov al Golfo di Finlandia. Fu questa la strada della cosiddetta Via dell’Ambra, percorsa a partire da circa il X secolo dai navigatori-mercanti-predoni variaghi provenienti dalla Svezia che convertiti al cristianesimo e uniti se non proprio fusi con le culture slave ad ovest degli Urali fondarono le fortezze-emporio-santuario della Rus’, giunsero sino a Costantinopoli dove i variaghi si alternavano ai normanni occidentali come scelta guardia imperiale e più tardi entrarono in un complesso rapporto feudale-antagonistico con i tartari dell’Orda d’Oro. Lungo la Via della Seta correvano anche altre merci preziose: dalle pelli alla cera alla resina al miele al legname, che inondavano i mercati bizantini e musulmani, mentre dal sud al nord risaliva la corrente dei metalli preziosi, oro e argento, in parte frutto di razzìe in parte provento di quei ricchi commerci. Un Mediterraneo dunque “allargato”, dal Corno d’Africa e dal Sudan fino al Baltico e alle steppe turkestane, come ben sapevano i viaggiatori e i geografi “arabi” – in realtà magari persiani o altaici o maghrebini, comunque musulmani e arabofoni – che appunto almeno dal X secolo, sfruttando il miglioramento climatico dell’emisfero boreale che aveva sciolto i ghiacci, viaggiarono fino al Settentrione europeo. E qui il “continente liquido” di braudeliana memoria si dilata fin a interessare, attraverso il sistema della navigazione delle “acque interne”, tutta l’Europa, l’intera Asia occidentale, il continente africano fino al Niger e al Sudan: questi gli immensi confini dell’irradiazione culturale e commerciale mediterranea e di un sistema mediterraneocentrico che attrae e ridistribuisce la seta e le spezie dell’Asia estrema, l’oro, l’avorio e gli schiavi del Sudan, l’ambra proveniente dalle oscurità settentrionali del Mare concretum, là dove secondo la scienza antica e medievale il ghiaccio eterno si trasformava lentamente in cristallo.
 
“Continente liquido” appunto, secondo la bella e famosissima definizione braudeliana; ma, come tutti gli altri continenti, ben lungi dal conoscere una sua sostanza unitaria e, al contrario, profondamente articolato. La sua avventura storica comincia dall’età del bronzo, una lega per costituire la quale è necessario fondere il rame – abbondante nel vicino Oriente e nell’isola di Cipro – allo stagno per rinvenire il quale era necessario arrivare nella penisola iberica e nelle isole britanniche. Furono i fenici, con i loro scali e i loro punti di rifornimento mercantili diffusi tra Libano e Maghreb, a segnare una strada sulla quale furono in seguito raggiunti da greci e celti occidentali; e all’indomani del vittorioso scontro con Cartagine, fu la compagine imperiale romana che, da potenza terrestre e peninsulare divenuta marittima e accogliendo la cultura della koinè diàlektos ellenistica nonché ereditando la sintesi ellenico-afroasiatica nata dalla travolgente esperienza di Alessandro Magno, aveva potuto imprimere un sigillo unico, ancorché non uniforme – al contrario, profondamente rispettoso delle diversità – alle molte civiltà e alle molte potenze che aveva sottomesso o con le quali era entrata in un rapporto segnato dalla propria imposizione egemonica.
Nei secoli tra VII e XVI – quindi il millennio entro il quale va compreso il convenzionale “medioevo” entro i limiti cronologici proposti da Henri Pirenne – il Mediterraneo fu senza dubbio, com’è stato detto di altri soggetti geostorici e geopolitici, “uno e divisibile”. Si tratta di ben altro che di un semplicistico e astratto problema di periodizzazione. In realtà la celebre tesi pirenniana d’una “rottura dell’unità mediterranea” dovuta all’irrompere dell’islam sulla scena del mondo e ai diretti e indiretti contraccolpi ch’esso aveva determinato è stata più volte, a più riprese e per più versi contestata: al punto che in molteplici successive occasioni se n’è annunziato il superamento e l’accantonamento. Giovi qui il richiamare a titolo esemplificativo, quanto meno, la dimostrazione che è merito di Maurice Lombard: cioè di quanto limitata, contenuta e parziale fosse stata quella “rottura”, sopravvenuta in realtà ad aggiungersi a una crisi demografica e socioeconomica profonda che si era già avviata fin dal III-IV secolo d.C. e che aveva conosciuto la sua fase di depressione più profonda proprio tra VI e VII secolo. Ragion per cui la straordinaria espansione dell’islam che tra la metà di quel secolo e quella del successivo giunse alle Colonne d’Ercole e all’Indo Kush, al Caucaso e al Corno d’Africa, segnò semmai non già il punto di rottura e di crisi d’un equilibrio civile e socioculturale ma semmai, al contrario, proprio il momento d’avvìo di una nuova e definitivamente positiva fase, che tra la fondazione dei califfati abbaside a nord o umayyade ispanico a ovest nel mondo musulmano e quella dell’impero carolingio e quindi ottoniano in quello cristiano occidentale avrebbe presieduto al dialogo-duello cristiano-musulmano la posta del quale sarebbe stata appunto l’egemonia sul Mediterraneo, con alterne fasi fino al definitivo mutamento di scenario determinato dalle conseguenze della scoperta del Nuovo Mondo, della stagione delle grandi navigazioni, scoperte e conquiste da parte d’un’Europa che da allora si è irradiata al di là dei suoi confini geostorici avviando la cosiddetta “economia-mondo”, la quale ha sostituito il precedente millenario sistema di civiltà “a compartimenti stagni”, scarsamente ed episodicamente collegate tra loro e con la quale l’occidente ha imposto al resto del mondo il sistema dello “scambio asimmetrico”, uno dei connotati di fondo della Modernità e della globalizzazione che ad essa è funzionale.
 
Con la navigazione oceanica, il Mediterraneo fu progressivamente – anche se mai del tutto – emarginato dalle grandi rotte e dal grande commercio ormai divenuto oceanico. Le cose cambiarono profondamente a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, con l’apertura del Canale di Suez e quindi il recupero inaspettato, per la penisola italica e i suoi porti, d’una centralità mondiale in quanto asse di un imponente traffico navale che li trovava come punto di passaggio e di riferimento sulle rotte tra Atlantico da una parte, Oceano Indiano e Pacifico dall’altra. Per questo Francia, Inghilterra e Prussia si disputarono nella seconda metà dell’Ottocento e ai primi del Novecento l’egemonia sull’Italietta. Per questo la politica navale e marinara fascista puntò a un’egemonia sull’intero Mare nostrum tesa a liberarsi dell’ostacolo obiettivo costituito dal fatto che la Gran Bretagna deteneva le chiavi delle porte occidentale (Gibilterra) e sudorientale (Suez) attraverso le quali il mare e gli oceani comunicavano.
Oggi, in margine soprattutto a una proposta di Sarkozy, si discute sul ruolo del Mediterraneo in relazione alla storia del continente europeo e alla complementarietà tra Unione europea e Paesi mediterranei. Si tratta di prospettive nuove: che tuttavia difficilmente riusciranno a svilupparsi se l’Europa, al momento divisa per tutto quel che non attiene al mondo economico-finanziario e incapace di sviluppare un suo progetto unitario sul piano della politica estera – per il quale si trova al rimorchio della “politica atlantista” egemonizzata dagli Stati Uniti d’America che la sorveglia attraverso lo strumento della Nato – continuerà a non riuscire a tradurre in termini politici liberi e indipendenti quella potenzialità unitaria che tra anni Sessanta – gli anni di De Gaulle e di Adenauer – e anni Settanta sembrava dietro l’angolo, mentre oggi appare irraggiungibile.


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