Berlin calling. La conferenza internazionale sulla Libia ospitata dalla capitale tedesca domenica scorsa può trasformarsi nella legacy politica della cancelliera di Angela Merkel. Parola di Judy Dempsey, nonresident Senior Fellow del Carnegie Europe. Per l’esperta americana, direttrice della rivista Strategic Europe, il vertice costituisce il punto più alto della politica estera tedesca da quando al governo c’è la leader della Cdu.
Dietro il summit non c’è una vuota ambizione alla mediazione diplomatica, ma “una buona dose di realpolitik”. È vero, il bilancio della conferenza non è dei più rosei. Il premier libico Fayez al-Serraj e il maresciallo di campo Khalifa Haftar si sono persino rifiutati di entrare nella stessa stanza, ma l’accordo sottoscritto da tutti gli altri attori internazionali presenti per far rispettare l’embargo di armi ha dimostrato “l’intenzione di Merkel di mettere fine a questa guerra”.
Il bilancio di politica domestica, invece, è di ben altro tenore. La Cancelliera che la stampa internazionale da mesi descrive avviata verso il tramonto ha trovato nella riunione di Berlino una duplice occasione di riscatto, scrive Dempsey. Il primo attiene alla politica estera tedesca. “La Germania è stata sottoposta a infinite critiche per essere un attore passivo in politica estera”.
Ne piovvero a dirotto, ad esempio, quando nel 2011 Merkel decise di astenersi dal voto sulla risoluzione Onu per un intervento contro la Libia di Muhammar Gheddafi, e rifiutò di unirsi alla coalizione Nato guidata da Francia, Stati Uniti e Regno Unito per bombardare le postazioni del colonnello. Fu allora accusata di essere filo-russa. Oggi, nove anni dopo, quella scelta permette alla Germania “di essere vista come neutrale e di ospitare la conferenza sulla Libia”.
Un’astensione che non ha risparmiato alla Germania targata Merkel le ripercussioni della guerra libica, a partire dall’ondata di migranti e rifugiati dal Nord Africa (e in misura molto maggiore dalla Siria) cui la Cancelliera ha aperto le porte, pagando “un caro prezzo” e spianando la strada all’estrema destra di Afd, oggi in prima fila in tante regioni del Paese. Così negli anni, almeno nella narrazione mainstream, la politica estera e interna della Merkel sono diventate “sinonimo di migrazione”.
Dopo questa conferenza qualcosa è cambiato. “Merkel sa che la crisi dei rifugiati è ben lontana da una soluzione e che la Libia è ancora una delle maggiori rotte per l’Europa”. Conosce anche “la combustibilità del Sahel”, la sconfinata regione africana dove la Francia di Emmanuel Macron è impegnata da anni in un’imponente missione anti-terrorismo con 4500 militari sul campo. “Più grande è il rischio alla sicurezza nel Sahel, più grande è il flusso di rifugiati e migranti” diretti in Europa, e in Germania.
Il protagonismo tedesco sul dossier libico è riuscito finora nei suoi due intenti originari, conclude l’esperta di Carnegie Europe: rilanciare l’immagine interna della Cancelliera, troppo a lungo adombrata dalla gestione dell’emergenza migratoria, e riaccreditare Berlino agli occhi della comunità occidentale non più come un “recipiente”, ma come “un grande attore in politica estera”.