E’ curioso come per raccontare i congressi di Ds e Margherita i quotidiani italiani abbiano speso quintali di inchiostro, paginate su paginate, per poi scoprire il commento più efficace è stato quello de Il Manifesto che ha sintetizzato il pensiero e le proposte del neo partito Democratico con lo spazio bianco di colonne vuote. Nella scelta del foglio comunista non c’è evidentemente mancanza di rispetto e neppure solo il gusto della provocazione, c’è la constatazione – amara – di una reale difficoltà dei due partiti del centrosinistra a parlare dei contenuti. Segnalarlo non è rivelatore di un approccio distruttivo, al contrario. Va detto con grande chiarezza che quello del partito Democratico è una novità fondamentale per la politica italiana. Lo sforzo di trovare una sintesi fra due importanti movimenti e classi dirigenti e di semplificare il quadro è comunque lodevole, a prescindere verrebbe da dire. La stessa presenza di Berlusconi e l’accoglienza che gli è stata riservata indica il passaggio dal bipolarismo primitivo e rozzo a quello mite e rappresenta, quindi, un motivo di successo. Non solo, l’uscita di Fabio Mussi prelude alla costituzione di un nuovo polo della sinistra europea che potrà fare perno sulla naturale evoluzione di Rifondazione comunista. Insomma, sul piano dei contenitori, si può convenire che gli elementi positivi ci sono e non sono affatto irrilevanti. Il nodo dei contenuti resta però intatto. Ad esclusione di Antonio Polito che ha proposto un emendamento liberale (partendo dal caso Telecom) al Manifesto del Pd, nei dibattiti congressuali non sono emerse indicazioni di merito degne di nota. Per uno strano caso del destino, è toccato al Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, indicare la rotta – obbligata – della politica economica del governo. Chiaramente il suo monito è stato ignorato, così come quello che Mario Monti ha lanciato dalle colonne del Corriere della Sera. Drastica riduzione della spesa pubblica, utilizzo più efficiente della leva fiscale, minore interventismo dello Stato in economia, promozione del Terzo Settore: sono gli ingredienti che erano stati suggeriti al governo e ai partiti di maggioranza relativa e che potevano essere alla base dell’iniziativa politica del partito Democratico. Invece, nulla. Neppure l’allarme dei conti pubblici su debito e spesa pubblica sono riusciti a dare una scossa a Ds e Margherita. Solo un grande dibattito sul Pantheon e sulla leadership. Le scelte di governo per il futuro del Paese sono risultate non pervenute.
I volenterosi non abitano qui, potrebbe essere la conclusione. Quel che è certo è che le lacrime per l’addio di Mussi e gli applausi per il benvenuto a Follini non hanno coperto il vuoto dell’assenza di Nicola Rossi. Già, perché i giornali che hanno dedicato monografie intere ai congressi di Firenze e Cinecittà si sono ‘scordati’ di segnalare che un esponente di grande rilievo come Nicola Rossi non ha partecipato a nessuna delle due assise. Non è andato con Mussi, non ha scelto con Caldarola la via socialista, non è passato con Berlusconi. E’ naturalmente iscritto al Pd ma respinto con perdita dall’establishment dei partiti fondatori. Le sue idee sull’economia e sul ruolo dei partiti appaiono scomode. Guai però ad illudersi che la battaglia del professor Rossi corrisponda ad un disagio solo personale. L’economista riformista per eccellenza è il termometro della capacità di rinnovamento del partito Democratico. Se Ds e Margherita vorranno riempire le colonne bianche del Manifesto non potranno prescindere da Nicola Rossi. Se lo spazio dei contenuti resterà vuoto, saranno altri soggetti politici, più volenterosi, ad occuparlo. La sfida del Pd è appena iniziata.