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In difesa di Di Maio. La crisi del M5S viene da lontano. L’analisi di Curini

E alla fine se ne andò. Luigi Di Maio, il “bibitaro” come i suoi nemici (invidiosi?) lo chiamavano. Quello degli strafalcioni linguistici. Quello che ha abolito la povertà. Nonché l’attuale ministro degli Esteri (con qualche problema di geografia). Ma anche un politico con un curriculum che a 33 anni ben pochi possono sognare: vicepresidente del Consiglio, ma anche leader del M5S da settembre 2017, che sotto di lui ha ottenuto nelle ultime elezioni un risultato elettorale straordinario.

Ma è quindi tutta colpa sua se le percentuali del suo partito dalle vette di due anni fa sono passate alle “stalle” di questi giorni (in senso lato, ovviamente: il 15% di voti che i sondaggi danno (ancora?) al M5S sono più del triplo dei voti che prenderebbe Matteo Renzi, ad esempio). Secondo me la risposta è no. Quello che paga il M5S sono due cose che vanno, a ben vedere, assieme.

Primo: il M5S paga l’aver perso la sua “verginità” politica che lo rendeva una forza anti-sistema (non ideologica, come era un tempo il Pci, ma di sostanza) così attraente da un punto di vista elettorale, una perdita che si è manifestata nel momento in cui è andato al governo non da solo, ma con altri. Prima con la Lega, e ci poteva forse anche stare, dato il loro comune essere “forze diverse” rispetto all’establishment, e poi, e soprattutto, con il partito che quel sistema rappresentava meglio di tutti, ovvero il Pd.

L’idea che molti suoi (ex) elettori si sono fatti è che il loro partito non abbia gloriosamente conquistato il sistema, modificandolo radicalmente dall’interno, ma che ne sia stato completamente assorbito. Come una DC qualunque. Da qua il rifiuto a sostenerli ancora. Questa dinamica è stata poi rafforzata da un ulteriore aspetto. La crisi del M5S è anche figlia del suo successo: all’improvviso, dal 2013 in poi, si sono ritrovati con così tanti voti che hanno portato ad eleggere persone che non solo non erano preparate al ruolo che li aspettava, ma che non erano stato affatto socializzate entro una struttura di partito. Da qua il loro comportamento non proprio disciplinato in parlamento (e le recenti, e continue, “fughe”).

Ed è questo l’aspetto cruciale. La crisi del M5S non è questione di leadership. Sostituire Di Maio con Vito Crimi, o con il Mago Zurlì (se fosse disponibile, ovvio), non cambierebbe nulla. Il peccato mortale del M5S è che è sempre rimasto in una fase di statu nascenti, come direbbe Francesco Alberoni, durante il quale un gruppo di persone, accomunate da speranze comuni (onestà! onestà!), si unisce per creare una forza nuova (un movimento per l’appunto) che si contrapponga all’Istituzione. Ma questa forza non è mai diventata realmente adulta. E alla lunga l’eccitazione e la forza delle emozioni tipiche di quelle prima esaltante fase appassiscono se non propriamente istituzionalizzate. E tutto evapora.

E quindi la vera domanda da porsi è: perché non lo ha fatto, nonostante ne avesse avuto il tempo nella passata legislatura? 5 anni comodi di opposizione per strutturarsi, per diventare un vero partito, per produrre una classe dirigente, per socializzare i propri iscritti ad una organizzazione. O almeno per provarlo a fare…

La mia sensazione è che al di là di oggettive difficoltà legate proprio al suo essere allergico a qualunque istituzione (il mito della democrazia diretta è duro da abbattere o modificare), una buona colpa sia da attribuire ai grandi capi del M5S, ovvero Beppe Grillo e Casaleggio (padre e figlio). Mantenere la loro creazione nella fase di “stato nascente” garantiva a loro sostanziale mano libera proprio grazie alla (non) organizzazione del M5S. Ovviamente questa è una ottica che presenta grandi vantaggi nel breve, ma espone qualunque movimento ad un prezzo salato nel medio periodo. Ed in questo, se vogliamo paradossalmente, il M5S si è comportato esattamente come un suo grande nemico, ovvero Silvio Berlusconi con Forza Italia.

Insomma, si preferisce il muoia Sansone con tutti i Filistei piuttosto che vedersi la propria creatura sfilata di mano, fuggendo con qualun’altro, senza più avere l’ultima parola sul tema. Un doloroso dilemma che tutti i genitori devono affrontare. Ma che per un politico è ferale.


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