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Lo Stato e l’economia. Il paradigma del Fondo strategico italiano secondo il prof. Valori

Il “Fondo strategico italiano” nacque esattamente il 28 luglio 2011, con Giulio Tremonti, allora ministro dell’Economia e con la collaborazione del direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli, sotto la presidenza di Cassa depositi e prestiti, allora espressa da Franco Bassanini, e infine con il sostegno dell’amministratore delegato, sempre allora, di Cdp, Giovanni Gorno Tempini.

Il Fsi è stato, fin dall’inizio, come molti ma non come tutti i numerosi Fondi Strategici presenti nel mondo, una società di holding di partecipazioni, ma che ha l’obiettivo primario di sostenere le imprese strategiche italiane.

Strategiche per prodotto, importanti per il processo, determinanti per le tecnologie, essenziali, come le aziende della Difesa, per le nostre tecnologie di punta.

Cosa vuol dire davvero, in questo caso, essere una “impresa strategica”? Qui le scuole comunque divergono, ma si potrebbe avere una buona definizione ricordando che le imprese strategiche sono quelle essenziali per la programmazione a medio-lungo termine dei principali settori, e dei più promettenti, del nostro sistema industriale.

L’idea del Fsi era poi quella di favorire, per alcune imprese, la loro massima efficienza e, in particolare, stimolare l’aumento della loro capacità di “combattimento” nell’ambito della concorrenza internazionale.

Il capitale sociale del Fsi fu, all’inizio, ridicolmente piccolo, di un miliardo di euro, che si espanse quasi subito fino a 4 miliardi.

La dotazione della società avrebbe però, nei progetti iniziali, e ancora oggi, potuto raggiungere i 7 miliardi. Probabilmente ancora troppo pochi. Il Fondo Strategico Italiano si rivolge, come tutti quelli simili oggi operanti nel mondo, a società solide, ma con la necessità di una nuova iniezione di capitali.

Certo, oggi è difficile parlare, come accadeva appena ieri, prima della grande rivoluzione tecnologica della Rete e delle telecomunicazioni logistiche, di “campioni nazionali” come li avevamo al tempo della Renault o della Fiat o, magari, di Autostrade.

Oggi, con le Global Value Chains, è difficile anche identificare la nazionalità diretta di prodotti che tutti noi riteniamo caratteristici e tipici di una determinata nazione. Per capire le Gvc, occorre pensare soprattutto alla distribuzione geografica delle imprese. Tutte piccole e medie. L’altra faccia, meno nota, del “piccolo è bello” di Schumacher.

Nel modello classico dello “sviluppo ritardato”, che è stato generalmente accettato fino agli anni ’70, lo spostamento del centro produttivo globale dalla Ue e dagli Usa verso l’Asia veniva letto unicamente come la creazione di una dipendenza strutturale delle periferie non-occidentali dal centro produttivo eurasiatico.

Derivazione marxista di questo modello fu la brillante teoria dello scambio ineguale di Arghiri Emmanuel, nata anch’essa all’inizio degli anni ’60. Da qui derivava la teoria della divisione mondiale tra Paesi “ricchi” e Paesi “poveri” ma oggi, con la evidente presenza di una sovrapproduzione mondiale (e di titoli finanziari a copertura) alle origini della attuale crisi economica, dal 2016 a oggi, si tende a pensare, invece, che esiste un modello ancora più euristico, detto dello “sviluppo compresso”.

Si tratterebbe di un criterio, lo sviluppo compresso, che mette al centro del suo interesse l’eterogeneità dei singoli Paesi che partecipano alle Global Value Chains, mettendo anche in conto lo straordinario dislivello di potere delle grandi società multinazionali verso le infinite Pmi “periferiche” e spesso non-occidentali.

Le Pmi come elementi essenziali della nuova divisione internazionale del lavoro, quindi, ma dipendenti da un sistema superiore di gestori delle Gvc che è un cartello nei singoli settori e un accordo politico e industriale tra settori diversi.

Allora, se è vero che i segmenti a maggiore valore aggiunto tendono a rimanere ancora nel vecchio centro euro-americano, ma è proprio la Cina che ci mostra oggi una strategia diversa, è anche vero che un modello che spiega le Catene Globali del Valore con il vecchio criterio dei “vantaggi comparativi” e dell’asimmetria tra centro e periferia non regge più alla prova dei fatti.

Quindi, che cos’è l’interesse nazionale economico? Arduo da vedere, oggi.

Ci viene in parziale soccorso la teoria di Hecksler-Ohlin, la quale afferma che una “nazione esporta soprattutto i suoi prodotti intensivi nel fattore (lavoro, tecnologia specializzata, capitali) che è relativamente più abbondante nel Paese stesso”.

Quindi, la quota di vantaggi comparati deriva dalla composizione della propria formula produttiva primaria, che viene selezionata dalla concorrenza globale delle Pmi rispetto a chi controlla monopolisticamente le global chains, oltre che dalla, e qui siamo al punto, capacità dei governi nazionali di creare vantaggi temporanei nelle Gvc, derivanti dalla creazione di strategie specifiche e dalla disposizione “corale” delle imprese private. Eccolo, il punto produttivo dell’Italia di oggi.

Far entrare alcuni nostri grossi campioni nazionali nell’oligopolio, più geopolitico che economico, delle imprese globali che comandano le principali Catene Globali del Valore, per poi organizzare i meccanismi “volontaristici” che permettono l’egemonia delle nostre Pmi nei vari mercati settoriali.

L’amico Paolo Savona ha parlato recentemente del “ritorno dello Stato padrone”, ma il futuro ci permetterà solo due forme reali di controllo delle catene globali del valore: o dall’alto, producendo imprese universali che comandano le catene, oppure dal basso, organizzando i gruppi di Pmi che vincono, con sostegni pubblici e privati, i loro concorrenti nella divisione creata dalle Gvc.

Comunque, tutte le analisi statistiche più recenti ci dimostrano che, nei Paesi dell’area Euro, vi sono state pesanti e ormai eccessive cessioni azionarie di enti di Stato e di liberalizzazioni, spesso di beni e servizi che sono, anche nella tradizione economica liberista, dei “monopoli naturali”, ma con un sensibile rallentamento delle dismissioni azionarie, che in Italia, Francia e Germania, possiamo datare fin dai primi anni 2000.

Ronald Reagan, l’uomo-simbolo della riscossa liberista, peraltro, non aveva affatto ridotto la spesa pubblica in generale, ma aveva contratto la tradizionale spesa per il Welfare civile, per favorire invece il suo specifico Welfare militare.

Una spesa in deficit, quella militare, che non ha riflessi inflazionistici immediati, ma che piuttosto fa da stimolo tecnologico per l’innovazione, anche nelle imprese civili.
Senza “istituzioni inclusive”, peraltro, ovvero senza organizzazioni pubbliche stabili che permettono a fasce sufficienti di popolazione di accedere ad una qualche ricchezza, tutti gli Stati moderni tendono però a ridursi a Failed States, stati falliti, e quindi diventano facile preda, e anche al minor costo possibile, dei propri avversari geo-economici strutturali e globali. Ecco a cosa servono, tra l’altro, i Fondi Sovrani.

Garantiscono infatti la proprietà, pubblica o semipubblica, delle imprese che uno Stato e una Società scelgono, momento per momento, per dirigere il loro futuro economico e sociale a medio-lungo termine.

E che devono quindi essere protetti, ripeto, protetti, dalle scorrerie dei concorrenti ipotetici e reali. Le scorrerie sono continue, i progetti di crescita temporanei.

Per Gilpin, lo ricordiamo, “l’obiettivo delle attività economiche è quello di fornire benefici ai consumatori, non quello di rafforzare la sicurezza dello Stato”.
Ma la sicurezza dello Stato è anch’essa un bene primario, che permette l’eliminazione rapida di azioni geo-economiche avverse e quindi evita la colonizzazione immediata dei potenziali di sviluppo di uno Stato e di una società.

Dice anche, del tutto giustamente, Edward Luttwak che ogni tipo di globalizzazione economica è sempre strategicamente pericolosa, poiché porta inevitabilmente a quella che lui chiama “competizione parossistica”, che è una caratteristica inevitabile del turbo-capitalismo: aumento velocissimo del numero e della rapidità degli scambi economici, sempre unita ad una globalizzazione post-Guerra Fredda, che non accetta nessun limite geografico alla propria espansione.
Se si ferma, il turbo-capitalismo si scioglie subito al sole fisso della realizzazione del valore.

La velocità eccessiva degli scambi mima la loro effettiva produttività, poi la massa e il numero degli scambi maschera talvolta il loro bassissimo valore, che però si mantiene proprio grazie ad una velocità eccessiva, che non permette la valutazione razionale e tecnica dei rischi.

Quindi, contro lo stato hobbesiano di bellum omnium contra omnes che è tipico del turbo-capitalismo, che di solito non investe a sufficienza nell’innovazione di prodotto o di processo, occorre pensare a due soluzioni, che sono state denominate come lo Stato dell’Intelligence Economica, oppure lo Stato Geoeconomico.

Paolo Savona e Carlo Jean hanno parlato del ruolo sempre maggiore dell’intelligence economica, che dovrebbe divenire l’asse delle scelte economiche, finanziarie, produttive di ogni Stato moderno. Senza Fondi Sovrani, niente intelligence economica, comunque.

E, allora, occorre detenere fermamente un settore, almeno uno, che sia comparativamente molto avanzato ma che sia soprattutto export led, e che inoltre sia protetto con tutte le tecniche, di tipo non-tariffario, che oggi sono comunemente utilizzate nella guerra economica di tutti i giorni e di ogni giorno.

Ecco perché, da almeno cinque anni a questa parte, tutti i maggiori Paesi occidentali stanno ripensando alle loro vecchie politiche di deindustrializzazione e delocalizzazione, che spesso privano le società e gli stati dei necessari sistemi di controllo dei flussi globali, finanziari e produttivi. Per non parlare della deprivazione fiscale e dei sovra-costi per il mantenimento della disoccupazione strutturale.

Siamo arrivati, nella evoluzione della teoria del commercio internazionale più recente, anche alla costituzione di una Teoria del Commercio Strategico, un modello che sottolinea la capacità delle imprese e dello Stato di migliorare la bilancia commerciale lavorando strategicamente, ovvero a medio lungo termine, nei mercati imperfetti globali.

I mercati oligopolistici sono sempre quelli dove si elaborano prodotti o servizi di punta, che di solito nascono proprio con investimenti pubblici nel settore Ricerca e Sviluppo.
È questa la vera natura del modello keynesiano: lo Stato finanzia quello che non è ancora redditizio, ma i privati si occupano soprattutto delle imprese “mature” o in crescita, che il mercato se lo sono già trovato.

Qui ci serve anche la teoria dello Stato Innovatore, ovvero lo Entrepreneurial State, elaborata recentemente da Mariana Mazzucato.
Lo Stato immaginato dalla Mazzucato esplora tutto il panorama del rischio d’impresa creando soprattutto nuovi mercati, in particolare lo Stato crea quelli in cui è necessario disporre di forti investimenti in situazioni di massima incertezza, comportandosi da risk taker e quindi, successivamente, da market shaper.

Lo “Stato Amministrativo” è una amministrazione pubblica che “serve” i privati, ma lo Stato imprenditore-innovatore è quello che non fa scavare le classiche buche keynesiane ai disoccupati, nei periodi inevitabili di contrazione della produzione, che è soprattutto, marxisticamente, una sovrapproduzione tendenziale.

Ma, casomai, lo Stato imprenditore-innovatore investe in nuove tecnologie di alta qualità, che creano mercati originali e in cui lo Stato imprenditore ha, di fatto, il comando del futuro oligopolio. Altro ruolo dei Fondi Sovrani.

I Fondi sono, comunque, tecnicamente, fondi di investimento che amministrano, secondo le regole globali di quella che oggi chiamiamo grey economy, dei portafogli di attività finanziarie in valuta estera.

I Fondi si dividono, in teoria, tra quelli che investono risorse provenienti da materie prime o idrocarburi (SWF Commodity) e tutti gli altri, che invece investono surplus provenienti dalle eccedenze valutarie delle bilance commerciali. È questo, ovviamente, il nostro caso.

Secondo i “Principi di Santiago”, un codice per i Fondi Sovrani elaborato su indicazione del Fondo Monetario Internazionale, i Swf (Sovereign Wealth Fund) sono fondi di investimento per fini speciali (“special purpose”) di proprietà dei governi nazionali.

Quindi, gli Swf hanno cinque caratteristiche primarie: a) sono sempre detenuti da uno Stato Sovrano, b) fanno investimenti in valuta estera, c) svolgono le loro attività in un orizzonte temporale di lungo periodo, con bassi livelli di indebitamento e senza prelievi o distribuzione di profitti ai partecipanti, d) hanno una contabilità rigidamente separata da quella delle Banche Centrali e dei ministeri finanziari, e) svolgono ricerche per investimenti con rendimenti superiori al tasso privo di rischio.

I primi fondi sovrani veri e propri furono la Kuwait Investment Authority, fondata nel 1953, naturalmente per investire i capitali originati dall’estrazione e dalla vendita del petrolio locale, oltre all’antico Revenue Equalization Reverse Fund, messo in piedi dall’amministrazione britannica della allora colonia delle Isole Gilbert, l’attuale Repubblica di Kiribati, per investire il surplus derivante dalla vendita dei fosfati.

L’accordo segreto tra Kissinger e Re Fahd dell’Arabia Saudita, dopo la guerra dello Yom Kippur, indirizza poi gli straordinari surplus, derivanti dall’aumento rilevantissimo del prezzo del barile Opec, verso i titoli di Stato Usa. Nascono i petrodollari.

Nella fase successiva al boom dei prezzi di alcune materie prime fondamentali, quando, infatti, i prezzi del petrolio crollano, e siamo arrivati agli anni ’80, i Fondi Sovrani diventano lo strumento primario per la diversificazione degli investimenti e, quindi, per la stabilità finanziaria dei Paesi produttori di materie prime (o di surplus commerciale) che li hanno già adottati.

Da allora e fino al 2005, i Fondi Sovrani divengono lo strumento principale, per i Paesi asiatici in particolare, di accumulo e utilizzazione delle riserve valutarie, che arrivano nei Paesi asiatici maggiormente export-led e più legati al ciclo del dollaro Usa.

Per evitare di dover ricorrere alle terapie, spesso pericolose, del Fondo Monetario, soprattutto quando la moneta di riferimento globale cade, i primissimi Paesi asiatici export led coniugano le loro politiche di espansione industriale con specifiche politiche di cambio, che tendono ad accumulare fondi in valuta estera molto vasti.
Ovviamente, ciò accade solo per evitare le manipolazioni dei mercati valutari in una condizione, di oggettiva debolezza, creata da una economia tutta direzionata verso le esportazioni. E esportazioni verso Paesi a fortissima valuta.

L’idea di utilizzare i Fondi Sovrani a questo fine era venuta, nel 1978, al SWF Temasek, il fondo “storico” di investimenti di Singapore.

Temasek ha investito i suoi notevoli surplus nell’acquisizione di imprese e società finanziarie nell’area asiatica direttamente confinante con Singapore, facendo superare alla città-Stato, che fu peraltro il primo modello per le Quattro Modernizzazioni di Deng Xiaoping, i suoi limiti strutturali, e mettendola quindi al sicuro da operazioni nemiche e avverse sui suoi cambi e sul suo sistema produttivo.

Dall’inizio della grande crisi dei subprime, infine, i Fondi di diffondono soprattutto nei BRICs (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e anche in alcuni Paesi del “primo mondo”, soprattutto per acquisire partecipazioni di minoranza o per mettere in atto azioni di hostile takeover verso concorrenti o potenziali penetratori del proprio mercato nazionale, magari anche, e non sarebbe la prima volta, con azioni di dumping.
Si immagina che, nel 2020, i Swf raggiungeranno, in tutto il mondo, una somma di asset gestiti di circa 15 tn di Usd. Ovvero, di 15 trilioni di Usd.

Il 75% del capitale manovrato dai fondi è oggi concentrato tra i primi 10 operatori, il mercato degli Swf è, ovviamente, fortemente oligopolistico, e i primi 10 sono oggi tutti mediorientali o asiatici.
Per quel che riguarda la storia dei Fondi Sovrani europei di tipo moderno, tutto inizia con la presidenza Sarkozy in Francia.

Il leader di centrodestra parigino imposta, già nel 2008, il Fond Strategique d’Investissement, che parte da due strutture finanziarie già esistenti: la Caisse des Dépôts et Consignations, l’equivalente della nostra Cassa Depositi e Prestiti, e il Fond de Réserve pour les Retraites, con capitalizzazioni, all’epoca, rispettivamente di 80 e 33,8 miliardi di euro.

Il nuovo Fondo Sovrano francese è comunque detenuto, per il 51%, dalla Caisse des Dépôts e per il 49% dalla Agence des Participations d’État.

L’obiettivo del Fondo creato da Sarkozy è quello di investire soprattutto nelle piccole e medie imprese, francesi e non, ma a forte crescita e che non abbiano più accesso (perché poi?) al finanziamento standard dei mercati.

Oppure, il Fondo francese interviene quando l’azienda venga apertamente minacciata da un hostile takeover, o comunque da una qualsiasi acquisizione, ma da parte di imprese straniere.

Il fondo di Parigi può anche intervenire direttamente nel capitale di industrie innovative.
I nostri Servizi, già nel 2008, comunque, ponevano l’attenzione alla necessità fortissima di protezione del know how nazionale, visto che i piani operativi di altri Fondi Sovrani, interessati all’Italia, potrebbero essere utili per l’acquisizione di tecnologie specifiche.

È già accaduto: dalle macchine utensili, all’agroalimentare, alle farmacie specialistiche, alla meccanica fine, le nostre prime e grandi Pmi sono già state acquisite da francesi, tedeschi, cinesi.

I Servizi hanno parlato, nella loro relazione alle Camere del 2010, di una “minaccia liquida” alle nostre aziende.

I fondi di private equity stranieri, infatti, si dirigono soprattutto verso le aziende bancarie, biotecnologiche, energetiche, dell’intrattenimento e perfino dei giochi on line.
Ma la Cassa Depositi e Prestiti dispone, oggi, di due strumenti per il sostegno alle imprese, soprattutto verso quelle tecnologicamente evolute.
Il Fondo Strategico Italiano, oggi Cdp private equity, e il Fondo Italiano di Investimento.

Quest’ultimo è stato lanciato nel 2010, con la collaborazione di alcune banche private e si rivolge soprattutto, come sempre, alle piccole e medie imprese.
Dispone di due strutture operative: il Fondo Venture Capital, per le start-up innovative, e il Fondo Minibond, che sostiene le emissioni obbligazionarie delle Piccole e Medie Imprese.

Il Fondo Strategico Italiano, il cui capitale è detenuto per il 90% da Cassa Depositi e Prestiti e per il 10% da Fintecna, che è comunque al 100% di Cdp, è stato lanciato nel 2011 con un capitale di 4,4 miliardi di euro per poi arrivare, come abbiamo già detto, all’impiego di 7 miliardi.
Perché, però, porre dei limiti?

Nasce con una esperienza negativa da scontare, il Fsi, dato che quelli erano gli anni delle scalate a Parmalat, appena e peraltro ben risanata, e a Bulgari, per non parlare delle future e possibili cessioni “amichevoli” e molto ben pompate dai nostri mass-media, di Alitalia e Edison.

Il Fsi si occupa soprattutto di imprese medio-grandi, e di “rilevante interesse nazionale”, mentre, fin dall’inizio, il nostro Fsi crea forti legami con Qatar Holding, il Russian Direct Investment Fund, la Kuwait Investment Authority e la Korea Investment Corporation.

Nel 2012, inoltre, il Fsi sigla un accordo con la Qatar Holding LLC per la costituzione di un gruppo unitario, ovvero una joint venture, denominata IQ Made in Italy Venture, per investire nelle società tipiche del nostro Made in Italy.

L’idea è quella, non del tutto realizzata, di costituire un “polo del lusso”.

Le restrizioni di Maastricht sui sedicenti “aiuti di Stato” rendono sempre difficile l’operato del Fsi, che, magari, avrebbe necessità di un braccio all’estero capace di operare sulle nostre imprese senza i vincoli Ue; e, ancora, sarebbe necessario ritenere legittimo un investimento del Fsi in aziende di rilevante interesse nazionale, ma indipendentemente dalla redditività media dei capitali Fsi investiti a medio termine.

Quindi, il nostro Fsi investe, diversamente dal vecchio statalismo economico novecentesco, in aziende sane, detiene tranquillamente e senza nervosismi il ruolo di azionista di minoranza, segue i criteri privatistici di redditività e efficienza degli investimenti, non segue poi le naturali distorsioni, spesso originate dalla proprietà pubblica, ma anche dai potenti privati, per manipolare le formule produttive e i mercati intermedi.
Ecco, rimeditare e ampliare le operazioni del Fondo, o magari creare settori specifici di intervento del Fsi, sarebbe una ottima evoluzione delle linee fondamentali sulle quali il Fondo Strategico Italiano è stato ideato.



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