Il rischio maggiore per questo governo? Ha un nome, ed è quello di Matteo Renzi, una scheggia impazzita che renderebbe instabile qualsiasi governo, non solo l’esecutivo guidato da Giuseppe Conte. Elezioni anticipate? Non è detto che arrivino, anzi è probabile che dopo le elezioni regionali arriverà un rimpasto di governo, o almeno questo è l’obiettivo del leader di Italia Viva. A crederlo è Nadia Urbinati, politologa, docente della Columbia University, in libreria con “Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia” (Il Mulino) in cui spiega come “il populismo non è un’ideologia, ma una forma di rappresentanza politica e di governo democratico”. Proprio per questo, per contrastarlo, è necessario ripensare i partiti e la loro presenza nei territori, un po’ come dovrebbe fare il Partito democratico guidato da Nicola Zingaretti.
Professoressa, partiamo dall’estate scorsa: il governo Pd-M5S nasce con la necessità di neutralizzare l’aumento dell’Iva e scongiurare le elezioni anticipate che avrebbero visto una possibile vittoria di Salvini. Qual è lo stato di salute dell’alleanza di governo, ora?
Credo che l’ordine gerarchico delle ragioni per la nascita del governo attuale sia in realtà invertito: prima evitare le elezioni anticipate e poi la neutralizzazione dell’aumento dell’Iva. Il contrasto all’avanzata di Salvini era ed è tutt’ora il tema dominante. Ho sempre pensato che la forza di questo governo stia nell’essere l’unica possibilità per evitare il peggio. Sapendo questo, può avere una forza o una tremenda debolezza.
Ci spieghi meglio.
Una forza perché per evitare un decadimento e evitare elezioni anticipate è stato costretto a fare cose buone, o almeno non pessime. Se invece non ci riuscisse, se fosse solo una toppa per impedire quello che era ed è ritenuto il peggio, sarebbe un fallimento grave. In questo senso è una forza e una debolezza insieme a seconda dell’uso che continueranno a fare di questa alleanza. Tra l’altro, quando è nato il governo non c’era ancora Italia Viva, quindi non si può parlare ora esclusivamente di un’alleanza Pd-M5S perché questa scheggia impazzita del renzismo è una perenne condizione di instabilità, quale che sia il governo.
A tal proposito, Matteo Renzi ha detto nei giorni scorsi che le ragioni dell’esistenza di questo esecutivo – che ha contribuito a far nascere – non ci sono più. Come interpreta le sue mosse?
Matteo Renzi, a mio giudizio, inventa le situazioni in relazione al suo interesse personale. Non ha un partito, lui ha sé stesso e una corte più o meno fedele che segue le sue posizioni. È incapace dar luogo a un partito collettivo, è un autoritario perché vuol primeggiare e avere degli alleati subalterni. Finché questo esecutivo dura, lui agirà con una permanente guerriglia che indebolisce l’alleanza che ha contribuito a creare. Ma lui questo già lo sapeva.
Cosa intende?
Renzi aveva già in progetto di fare la scissione, ma ovviamente non poteva farla prima della nascita del governo. La ragione era fare in modo che il suo piccolo gruzzolo contasse più degli altri due partiti più grandi. Quindi, paradossalmente, lui che si è sempre dichiarato maggioritarista adesso è un minoritarista che usa il suo piccolo gruppo come arma di ricatto dal quale dipende la stabilità del governo. È una mina vagante, il vero problema del governo si chiama Renzi, non Salvini.
A tal proposito, si parla di un possibile asse Renzi-Salvini che, da una parte punta alle elezioni anticipate e dall’altra a un cambio nell’esecutivo che porti il Paese ad elezioni. Lo pensa possibile?
È probabile, se a lui conviene potrebbe anche fare questa alleanza. È un uomo senza principi, Renzi, quindi va dove è più conveniente. Bisogna considerare che è anche uscito dal gruppo europeo dell’S&D, spostandosi su posizioni liberali, centriste e possibilmente volte al centrodestra; è chiaro quindi che oggi può coltivare anche quel tipo di alleanza, pensando, magari, di poter sostituire quel centro berlusconiano che è indebolito.
In questo tipo di prospettiva una alleanza con la Lega è quindi possibile?
Se Salvini smorza i toni anti-liberali e anti-establishment come qualche volta sembra fare nonostante non rifiuti mai di giocare con l’arma della retorica oltranzista (anche rispetto a una parte dell’elettorato della Lega), credo sia possibile. Soprattutto perché sempre di più emerge nella Lega la posizione di Giancarlo Giorgetti, il liberale che potrebbe essere l’uomo giusto per favorire questo tipo di accordo con il nuovo centro in cui si colloca anche Renzi e non solo Forza Italia.
Invece dall’altra parte i critici dell’alleanza Pd-M5S sostengono che il Pd si stia grillizzando. Secondo lei è un rischio concreto?
Io non credo. Credo che il Partito sia in una situazione di transizione e di grande difficoltà, derivante non soltanto dalla sua identità, ma soprattutto dal fatto che è costretto a stare con un alleato che non c’è più.
Il Movimento 5 Stelle?
Esatto. Il Movimento 5 Stelle esiste in Parlamento, ma se si andasse di nuovo a elezioni sarebbero una forza dimezzata, e forse anche di più, rispetto all’oltre il 30% che conta ora nelle due camere. Si potrebbe dire che il Pd governa con una forza virtuale che deve comportarsi come se fosse vera, e questa incredibile condizione spiega il suo comportarsi come un calabrone dentro una bottiglia: un giorno va di qua e un giorno va di là, alla ricerca di nuovi consensi.
Ci spiega meglio?
Vanno in piazza e fanno delle manifestazioni contro sé stessi, ossia manifestano contro l’establishment, contro le poltrone, quando sono occupate da loro, un vero controsenso. D’altro canto perseguono forme di sostegno ai più deboli, con misure come il Reddito di Cittadinanza e il salario minimo. Ecco, da un lato una posizione un po’ di destra e antipolitica, e dall’altro una posizione un po’ di sinistra a sostegno della parte più povera della popolazione. Svolazzano da una parte all’altra senza una chiara visione, anche se i 5 Stelle, a mio parere, soprattutto nella direzione di Di Maio, pendono di più verso destra che non verso sinistra. E questa è forse una chiave per capire la fatica che c’è nel rivedere i decreti Salvini, che i 5 Stelle hanno condiviso nello spirito e sostenuti nel merito.
Torniamo quindi alle difficoltà del Pd…
Con queste premesse il Partito democratico ha difficoltà a portare questa alleanza su posizioni più di centrosinistra. È una azione non facile. Inoltre il Pd deve ricostituirsi internamente, ricomporsi. Ha iniziato questo processo cambiando alcune voci dello statuto, per esempio introducendo il congresso; questo è positivo, ma non basta.
Cosa dovrebbe fare?
Deve darsi una struttura più organizzata con organismi collettivi deliberativi e decisionali, limiti del potere del leader e poi, soprattutto, deve aprire sedi e luoghi di discussione e attivismo nelle zone in cui non è presente da tanto tempo, come le periferie o, come si dice spesso, i territori. Insomma il Pd deve fare tantissimo lavoro per non essere solo un partito dentro le istituzioni. Fare queste cose assieme non è facile con le forze risicate dal punto di vista organizzativo di cui dispone.
Nel suo libro “Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia” (Il Mulino), sostiene che l’antidoto al populismo è proprio una nuova strutturazione dei partiti. È quello che sta provando a fare il Partito democratico?
Il Pd è su quella strada, insieme agli altri movimenti della sinistra, ma non so se ci riuscirà. L’obiettivo dovrebbe essere raccogliere intorno a un progetto di Paese basato sulla giustizia sociale, sul lavoro, sui diritti civili tutte le forze che si riconoscono nell’area politica di centrosinistra. Senza un progetto simile abbiamo solo capitani di ventura, primarie come plebisciti per la loro persona o che sono in Tv e usano l’audience per costruire la propria persona identificandosi con il proprio popolo. Lo fa Renzi, lo fa Salvini ma è un fenomeno generale che si appoggia su emozioni e passioni spesso fondate sul risentimento verso l’élite o più frequentemente verso i diversi, verso chi non è “come noi”.
Come si risponde a questa forma personalistica dell’audience?
Organizzando il popolo attorno a temi e obiettivi che siano anche di attivismo e di conflitto. Il conflitto non va solo contenuto, va anche anche organizzato secondo obiettivi di medio periodo, affinché non sia mera ribellione, opposizione pura e dura senza una visione. Questa è una sfida enorme perché la democrazia elettorale, che oggi ha partiti solo dentro le istituzioni ma non nella società, ha bisogno di organizzare la moltitudine per non lasciarla in balia di leader che volta a volta la usano a loro piacimento. Da Mussolini in poi l’abbiamo visto accadere con tutti i leader carismatici e plebiscitari.
Sempre nel suo libro, lei sostiene che l’assetto costituzionale non viene eliminato, ma lentamente corroso dal populismo…
Lentamente, sì, ma non solo. Può anche portare, in alcuni casi a riforme della Costituzione. Lo stesso Salvini sta insistendo ora sull’elezione diretta del Presidente della Repubblica, che sarebbe il coronamento del plebiscitarismo populista.
Il taglio dei parlamentari si innesta in questo tipo di ragionamento o è una riforma legittima?
È una riforma pessima che poteva essere fatta meglio; e non parlo semplicemente della diminuzione del numero dei parlamentari. Due ragioni su tutte: la prima, va sempre considerato che il numero dei seggi deve essere proporzionale agli abitanti di un Paese. Con questa riforma, l’Italia diventa il Paese dell’Ue con il minor numero di deputati in rapporto alla popolazione: con 0,7 “onorevoli” ogni 100mila abitanti (rispetto all’uno precedente), supera la Spagna che deteneva il primato con 0,8. Al primo posto, sotto questo profilo, c’è Malta: 14,4 deputati ogni 100mila abitanti. Da un lato i 5 Stelle fanno un discorso populista contro l’establishment, dall’altro indeboliscono la rappresentanza dei cittadini. Sono dei confusionari terribili.
La seconda?
La seconda è che non tiene conto proporzionalmente di tutte le regioni. Mi spiego meglio: noi avremo regioni con più rappresentatività di altre, una diseguaglianza di rappresentanza dei cittadini. Non una parola è stata spesa su queste criticità, come non la si è spesa sulle distinzioni delle funzioni delle due camere: 400 parlamentari per la Camera e 200 per il Senato con le stesse funzioni. È una riforma pessima accettata nel nome, anche questa volta, delle elezioni da scongiurare. Personalmente e insieme ad associazioni che si muovono in questa direzione, sostengo che sia necessario fare una campagna di informazione per motivare il no a questa riforma.
Superato il referendum sul taglio dei parlamentari si apre una finestra per il voto. Pensa che questa legislatura arriverà al so termine naturale o vedremo elezioni anticipate?
Credo che non si andrà ad elezioni anticipate. Ma sembra di capire che Renzi e Salvini possano a un certo punto della loro traiettoria trovare un punto di accordo e credo che le elezioni regionali servano a questo.
In che senso?
Il comportamento di Italia Viva è evidente: vuole indebolire il Pd e la sinistra. Si presenta in tutte le regioni (fuorché la Toscana, che Renzi ha blindato) con il proposito di far azione di guerriglia – andare con sue liste e di disturbo all’elettorato Pd sperando in un indebolimento di quest’ultimo e forse anche nella possibilità di fare le alleanze con altri, o con chi vuole lui. È probabile, quindi, che le elezioni regionali siano il banco di prova per nuove alleanze di governo, senza necessariamente andare a nuove elezioni.
Pensa a un rimpasto di governo?
Esatto. Anche oggi lo dice, un altro governo senza Conte ma con un altro leader, magari lui stesso. Questo è il suo obiettivo, perché le elezioni anticipate sono un rischio anche per lui che al momento riesce a raccogliere percentuali di consensi non superiori al 4%. Le elezioni regionali gli diranno se può farlo o no.