Nominato per la candidatura a Premio Nobel per la Pace, Nicolò Govoni, 27enne di Cremona, presidente e cofondatore della ong “Still I Rise“, ci parla dalla Turchia. È a Gaziantep, nel sud del Paese verso la Siria, per coordinare i lavori d’apertura della Scuola Internazionale per minori rifugiati, dove ha replicato – o meglio allargato – l’esperienza fatta nell’hotspot per migranti di Samos, in Grecia.
“Educhiamo gli ultimi come fossero i primi”, dice uno dei claim principali della tua organizzazione: in sostanza, cosa fate?
Cerchiamo di ripristinare il diritto all’infanzia per i figli della guerra. Lo facciamo attraverso le più moderne tecniche educative e una selezione dello staff che ci assicuri la massima professionalità possibile dato il contesto di grave emergenza dell’isola (Samos, ndr). Nel 2018 abbiamo aperto il centro giovanile Mazì, la prima scuola per bambini e adolescenti profughi di Samos, in Grecia. Da allora abbiamo istruito, protetto e sfamato più di 1.600 minori vulnerabili, servendo 18 mila colazioni, 19 mila pranzi, e facendo 13 mila ore di lezione in totale. Grazie al nostro programma di assistenza sanitaria, abbiamo distribuito 200 paia di occhiali, distribuito 1.000 kit per l’igiene personale e offerto cure dentistiche e mediche di vario tipo. E facciamo circa 50 ore di terapia al mese grazie alla nostra specialista infantile.
Un sistema umanitario che Govoni ha raccontato ampiamente in “Se fosse tuo figlio“, il suo ultimo libro uscito a giugno per Rizzoli. Raccontaci il vostro concetto di scuola.
Il modello Still I rise è olistico e reinventa il concetto di scuola. Noi vediamo lo spazio educativo non come una sorta di fabbrica in cui ogni studente venga trattato allo stesso modo e da cui si esiga la stessa performance, ma come una serra dove ogni pianta è unica e speciale, e per questo merita cure individualizzate. “Mazì” non è una semplice scuola, è un porto sicuro per i bambini più vulnerabili d’Europa.
Risultati?
I risultati del modello educativo che abbiamo creato sono lampanti. I bambini che varcano la nostra soglia per la prima volta sono spesso psicologicamente in frantumi dopo anni di guerra e migrazione. Dopo solo sei mesi, però, riescono a comunicare, cooperare l’uno con l’altro, si riabituano a un contesto educativo stabile, e soprattutto ricominciano a sognare in un domani migliore. Insomma, tornano a fiorire.
C’è anche un passaggio nel mondo del diritto internazionale: una denuncia contro l’hotspot greco spinta insieme al Greek Council for Refugees, Asgi, e al supporto di Medici Senza Frontiere. Cosa avete promosso?
A dicembre 2019, dopo mesi di battaglie legali per denunciare gli abusi e la negligenza dell’hotspot di Samos, abbiamo ottenuto una prima vittoria quando la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha indicato l’immediato trasferimento di cinque minori non accompagnati, definendo l’hotspot inadeguato alla vita di un minore. Questa è stata la prima volta nella storia che la Corte Europea, in attesa della sentenza, ha disposto una decisione di interim mesaures per minori non accompagnati presenti nel centro di prima accoglienza di Samos, creando un importante precedente.
Ma il progetto si sta allargando, giusto?
Abbiamo compilato il nostro modello educativo e l’abbiamo sottoposto alla più grande organizzazione che offre educazione privata al mondo. La loro risposta si è rivelata molto positiva, e ora stiamo lavorando a una partnership per creare le prima scuole internazionali per bambini profughi del mondo. È la prima volta nella storia che un’organizzazione elitaria come questa decide di collaborare con una no-profit.
Ora sei in Turchia per un allargamento del progetto Samos, giusto?
Sì. Al momento stiamo lavorando per aprire la prima di queste scuole a Gaziantep, in Turchia, a un’ora di macchina dal confine siriano. L’obiettivo è quello di offrire a minori che non hanno più nulla la possibilità di istruirsi in una scuola di livello mondiale e ottenere un diploma che garantirà loro l’accesso a qualsiasi università nel mondo.
Qui gli stessi siriani hanno accolto il nostro progetto con grande entusiasmo. Per citare le loro parole, stiamo portando un concetto che nessuno aveva mai tentato o anche solo immaginato prima. In un luogo privo di possibilità, voi state offrendo un’opportunità incredibile.
Turchia, ma non solo: sul sito di Still I Rise si parla di altri progetti…
Al contempo, abbiamo un team a Nairobi, in Kenya, dove confluiscono centinaia di migliaia di profughi dai Paesi attigui. È lì che apriremo la nostra seconda scuola internazionale, nella seconda metà del 2020. Poi, l’obiettivo è quello di aprirne una in Sud America, e infine una in Italia, nel 2021.
Il sud della Turchia, dove in questo momento ti trovi, è un luogo che fa da snodo a una dinamica geopolitica molto delicata, che coinvolge il regime siriano, ma anche la Turchia e la Russia: la battaglia di Idlib. Si parla di 900mila sfollati, pressati tra i combattimenti e il confine turco-siriano: qual è la situazione, per quello che anche voi state vivendo?
Per anni, a Samos, abbiamo accolto bambini a pezzi nella nostra scuola. Dei tanti incubi che affollavano le loro menti di notte e di giorno, ce n’era uno che accumunava tutti loro: il transito in Turchia. La prigione, il lavoro minorile, i trafficanti, la vita di strada. Dei circa 4 milioni di profughi ospitati dalla Turchia, oltre 500.000 vivono a Gaziantep. Di questi, circa un terzo sono bambini. E nel loro caso, la crisi educativa è dilagante. La Turchia ha fatto del suo meglio per integrare i bambini siriani, ma il problema è troppo esteso, e le condizioni di queste famiglie disperate. Il 97 per cento dei bambini siriani frequenta la scuola elementare. Un traguardo eccezionale. Ma una volta raggiunti i 10 anni d’età, la frequenza crolla. A Gaziantep, i dati ufficiali indicano che quasi il 90 per cento dei bambini siriani abbandonano la scuola durante gli anni delle medie.
E ora la battaglia di Idlib, un aggravamento della crisi…
La situazione non può che peggiorare. Si parla di 900 mila sfollati bloccati tra le bombe e il muro del confine turco che, chiuso da ormai due anni, li intrappola in un lembo di terra occupato da campi profughi improvvisati, in balia delle intemperie e privi di supporto umanitario. Gli operatori Bonyan, una delle Ong locali con cui collaboriamo, dicono che se anche potessero paracadutare tende o provviste, avrebbero la certezza di uccidere almeno una famiglia nel farlo, tante sono le persone sfollate. Forse in Europa la gente si è stancata di sentire parlare di profughi e di crisi siriana, non fa più notizia, ma qui sul confine la crisi è ancora viva e vegeta, e le persone hanno bisogno di aiuto ora come allora.
(Foto: Nicolò Govoni sul confine tra Turchia e Siria, il luogo di ammassamento dei migranti che scappano dalla guerra)