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Comitati per la liberazione della politica

Quale Italia lasceremo ai nostri figli e nipoti? Non aspettiamo che siano altri a proporci una risposta. Il futuro non è una astratta categoria che possa essere riempita con gli strumenti della retorica. Quel che sarà è in buona parte presente in ciò che è. E se il domani lo realizziamo oggi, allora dovrebbe essere chiaro che una risposta alla nostra domanda iniziale possiamo già darcela. Per elaborarla dobbiamo semplicemente levarci i paraocchi del presentismo, ideologia che ha confortevolmente pervaso il nostro quotidiano.
 
Non è necessario ricorrere ad una sfera di cristallo per una puntuale proiezione del nostro Paese nel 2050. Partendo dal calcolo dei nati negli ultimi cinque anni (2005-2010) e paragonandolo al dato del quinquennio di trent’anni fa (1975-1980), potremo constatare il calo demografico che porterà ad avere – se il trend demografico non sarà invertito in modo significativo – uno spaventoso squilibrio fra popolazione anziana e giovane. A questo aggiungiamo le statistiche (non le previsioni) sui consumi di alcol e droga da parte degli attuali adolescenti: sono dati scioccanti. Non paghi, proviamo a smettere di correre e fermiamoci ad osservare senza pregiudizi i teenager. Pensiamo all’istruzione che ricevono e ai contesti familiari sempre più frammentati nei quali vivono. Infine, ed è la prova del nove, accendiamo la tv. Ecco a voi l’Italia che stiamo costruendo, quella già di oggi.
La società si sta sfarinando. “Stato-bordello” ci ha definito una rivista americana del calibro di Foreign Policy. La forbice delle retribuzioni fra i pochi di una fortunata élite e i quasi-tutti della più diffusa normalità ha raggiunto livelli per i quali anche i più convinti assertori del liberissimo mercato finiscono per impallidire (o arrossire, se hanno una coscienza). A piangere non è solo il portafoglio, è anche e soprattutto lo spirito morale del Paese, la sua tensione etica. Le cinquecento hostess offerte al dittatore Gheddafi per uno show di dubbio gusto nel cuore della Capitale italiana, ed anche della cristianità, sono il segno di una rottura già avvenuta.
 
Dobbiamo preoccuparcene seriamente. E ci permettiamo di dire, con il tono basso ma deciso della nostra voce, che a temere dovrebbe essere anche la Chiesa italiana, nella sua interezza. I pastori non possono non avere a cuore le sorti di un gregge che si fa più piccolo e che si mostra sempre più disorientato. Non rivendichiamo l’autorità del Magistero e non ci piace salire sul pulpito. La nostra è solo una sommessa invocazione d’aiuto.
In un momento che si annuncia di lunga e difficile transizione, non ci si può limitare a generici appelli all’impegno. Servono gesti e fatti di responsabilità. La logica per la quale negli ultimi quindici anni si è pensato di fare degli eletti cattolici una importante e decisiva lobby trasversale è ormai superata. Paradossalmente, pur riconoscendone limiti e contraddizioni, dovremmo tornare a leggere l’esperienza dei Comitati civici del 1948 per immaginare un’Avanguardia cattolica, una forza comunque laica, che liberi la politica e aiuti le nascenti forze politiche a crescere avendo basi culturalmente più solide.
Il futuro del Paese non può essere uno slogan lasciato alla mercè di chi non riesce ad andare oltre l’istante del proprio presente. Tocca a noi trovare le risposte giuste alle domande che si fanno ogni giorno più inquietanti.
 
L´articolo di Foreign Policy


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