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Il capitalismo deve cambiare

Una cosa è certa: il “pensiero unico liberista”, che in questi ultimi anni ha monopolizzato la cultura politica italiana più che in ogni altro Paese occidentale, è finito. La crisi finanziaria mondiale nata con il crack dei mutui subprime e lo sgonfiamento della bolla speculativa immobiliare, insieme con la constatazione, tardiva ma importante, della specificità strutturale della crisi economica italiana, hanno determinato una nuova consapevolezza nelle classi dirigenti e nei ceti intellettuali circa il ruolo del mercato e dello Stato nelle dinamiche dei processi economici. Si sta finalmente cominciando a capire che è falsa la dicotomia che contrappone il “più Stato, meno mercato” al “più mercato, meno Stato”, e che i cambiamenti epocali messi in moto dalla globalizzazione e dalla rivoluzione tecnologica richiedono una risposta molto più complessa dello statalismo old style o del liberismo che predica lo “Stato minimo”, risposta racchiudibile nello schema “più Stato, più mercato”.
 
Intendendo per più Stato non necessariamente una maggiore presenza di capitale pubblico, ma sicuramente una più forte capacità della politica di decidere, indicando le linee strategiche lungo le quali è opportuno si muovano le forze produttive, e intendendo per più mercato quell’insieme di regole semplici che devono assicurare la maggiore trasparenza possibile alle dinamiche del profitto. Non che si tratti di una gran scoperta, questa “terza via” – nel senso di alternativa allo statalismo e al liberismo – visto che già Ugo La Malfa e il pensiero lib-lab avevano lavorato lungo questa linea.
 
Assodato che è cambiato il vento, ci si domanda se tutto questo significa il ritorno a Keynes. Posta così, la domanda è capziosa, per molti versi inutile. John Maynard Keynes appartiene agli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, e come tale, il suo pensiero non è riproponibile in modo meccanico. Se, invece, per ritorno al keynesismo s’intende la riscoperta della necessità di superare definitivamente la dicotomia statalismo-liberismo, e recuperare il ruolo della sfera pubblica rispetto al mercato, allora è utile e opportuno che si torni a parlare del Grande Vecchio che è giustamente considerato il padre della moderna macroeconomia.
 
Con le sue teorie progressiste ma non marxiste, Keynes sosteneva  la necessità di un intervento regolatore dello Stato, soprattutto usando lo strumento della politica monetaria e del credito. Il suo pensiero è certamente utile quando si ragiona sul futuro della globalizzazione. Non c’è dubbio, infatti, che si sia aperta una sorta di “fase due” del processo d’integrazione planetaria delle economie e dei mercati, e che questa stagione debba essere caratterizzata non già, come qualcuno chiede, da un ritorno al protezionismo, bensì dalla scrittura di regole comuni e dalla definizione di nuovi organismi mondiali – che superino sia quelli tecnici come Fondo monetario e Banca mondiale, sia quelli politici come i vari G8-G10 – capaci di chiudere definitivamente la fase delle liberalizzazioni (anni Novanta), a sua volta ai trent’anni di stabilità che dopo il 1945 furono assicurati da Bretton Woods. Per questo dire, come fa Dani Rodrik dell’Università di Harvard, che “l’economia mondiale aspetta disperatamente il suo nuovo Keynes”, è asserzione assai convincente.
 
Diversa è la “questione Keynes” in Italia. Perché a suo tempo quella concezione è diventata l’Iri e le partecipazioni statali, che io pur con tutti i loro difetti non considero affatto siano stati un male, ma che un complesso di ragioni, prima fra le quale la maledetta stagione di Tangentopoli, ha finito per dipingere agli occhi dell’opinione pubblica la peggiore delle iatture. Ora, però, la politica monetaria è nelle mani di pochissime banche centrali, mentre le difficoltà degli istituti commerciali sia sul fronte del credito che su quello dell’equity è compensata dal prepotente emergere di quelli che sono stati definiti i “quattro cavalieri dell’apocalisse” – i fondi sovrani, gli hedge fund, i private equity e le banche di Stato asiatiche – che tutto sono fuorché nelle nostre disponibilità. Essi realizzano maxi acquisizioni, salvano banche altrimenti destinate al tracollo, tentano di entrare in settori industriali strategici. Dunque, si può competere con questi giganti non avendo né mezzi finanziari né strumenti all’altezza della sfida globale? È chiaro che no. Ma questo significa che siamo di fronte ad un bivio: o lasciare che i residui asset italici vadano in mani straniere – anche se sembra sempre meno probabile che qualche maxicapitalista estero intenda sfidare la sorte investendo in un Paese come l’Italia in cui non vi è certezza del diritto e in cui vaste aree sono fuori del controllo statale – o provare a (ri)organizzare non già il capitalismo italiano – che non è più un sistema organico da molti anni e non ha più alcuna ragionevole possibilità di tornare ad esserlo – bensì quello europeo, unico standard minimo che il Vecchio Continente può pensare di darsi per vincere la sfida dell’asse Usa-Asia. E se per costruire il capitalismo europeo occorre un’Iri – potremmo chiamarlo Ire-Istituto ricostruzione europea – ragioniamone senza scandalizzarci. Quello che conta, per noi italiani, è capire che la disastrosa condizione in cui versa la nostra economia a “crescita zero” richiede una revisione coraggiosa delle politiche fin qui seguite. E che il contesto continentale è l’unico che ci può consentire questo cambio di passo.
 
Ma siccome gli Stati Uniti d’Europa sono di là da venire, e senza un governo eletto direttamente dai cittadini non è neppure pensabile riuscire a superare gli egoismi e la guerra degli interessi nazionali e costruire quella frontiera di un unico capitalismo dell’euro di cui ho parlato, allora, nel frattempo, cosa bisogna fare? Si potrebbe dire: inventiamocelo noi, un Fondo sovrano. Certo, l’Italia non ha le caratteristiche tipiche dei Paesi che oggi generano queste “corazzate” finanziarie: non abbiamo né la crescita accelerata (come la Cina), né le materie prime (come il petrolio di Dubai o il gas della russa Gazprom), né abbiamo (per ora) un sistema decisionale non propriamente democratico come quello russo.
 
Ugualmente, una possibilità ci sarebbe. Lo Stato italia- no, infatti, possiede un ingente patrimonio, costituito da partecipazioni (Enel, Eni, eccetera) e asset immobiliari. Patrimonio che potrebbe essere utilizzato, invece che come semplice rendita, per lanciare un’importante operazione di stimolo all’economia. Una massiccia campagna di investimenti – questi sì definibili di stampo keynesiano – in grado di indurre l’economia reale a girare ad un livello superiore a quello asfittico attuale. Come? Per esempio, seguendo le indicazioni della vecchia “bozza Guarino”, un’interessante proposta che non ha mai avuto seguito ed è stata chiusa in un cassetto per anni. Il progetto in questione calcolava in circa 400 miliardi di euro il patrimonio dello Stato. L’idea, allora, era di conferire tutte queste partecipazioni in una Spa, una public company di cui il Tesoro potrebbe avere inizialmente il pieno controllo, per poi cominciare a diluire gradualmente la sua partecipazione cedendo quote sul mercato, e nel frattempo emettendo obbligazioni ad alto reddito. Una newco con una missione precisa, insomma: quella di rilanciare l’economia. Naturalmente, di fronte ad una simile proposta, prevedo già l’obiezione: ma come, qui si vuole rifare l’Iri! D’accordo, se è questione di nomi, chiamiamola “Italian Investment Company”, che suona meglio, più internazionale.
 
Se invece la critica è di metodo vorrei ricordare casi illustri di Paesi non proprio stalinisti come la Gran Bretagna (salvataggio pubblico della Northern Rock) o gli stessi Stati Uniti (col Tesoro intervenuto a salvare Merrill Lynch e i colossi dei mutui Freddie Mac e Fannie Mae) che non hanno esitato ad utilizzare la leva pubblica per salvare il loro capitalismo. Si dirà: un conto sono i salvataggi – e con Alitalia si sta facendo – un altro sono i nuovi investimenti. Vero, ma è altrettanto certo che un capitalismo che deve cambiar pelle come il nostro ha molto più bisogno di nuove iniziative che di consolidare (?) quelle che gli sono rimaste. E che non basti lasciar fare alla “mano invisibile” del capitalismo italico, affetto sempre più da nanismo patologico, lo si evince dalla più recente delle statistiche: la classifica di Fortune, secondo cui solo 10 aziende italiane sono comprese tra le 500 più grandi del mondo (contro le 29 della Cina, che ne ha aggiunte 5 solo quest’anno). Insomma, inutile attendere lo sbarco degli arabi o dei cinesi, che non arriveranno salvo attendere il nostro fallimento. Né ci salveranno i “nuovi” salotti o salottini buoni del capitalismo italiano (che infatti non esistono). A salvare la decotta economia italiana può essere soltanto un nuovo piano Marshall, ovviamente concordato a Bruxelles. E con la benedizione del vecchio Keynes, s’intende.


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