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Marx vorrebbe, ma non può

A quanto pare la grande crisi economica attualmente in corso avrebbe fatto tornare di moda – a sinistra – il Das Kapital di Karl Marx. Alcuni marxisti affermano infatti che la crisi in corso assomigli a quella del 1929 e che forse sia ancora peggiore segnando finalmente la da loro tanto attesa caduta del sistema capitalistico. Ho l’impressione che si tratti di ciò che gli anglosassoni definiscono un “wishful thinking”, ovvero un pensiero nato dal desiderio. Giorgio Ruffolo, il famoso economista e politico socialista, ma con i piedi per terra, ha pubblicato nel 2008 (Einaudi editore) un saggio intitolato: Il capitalismo ha i secoli contati, non le settimane o i giorni.
Abbiamo adesso un secondo Marx, che non si chiama Karl, bensì Reinhard, tedesco anche lui, ma arcivescovo cattolico di Monaco di Baviera e niente affatto parente dell’altro.  L’arcivescovo ha voluto scrivere il suo Das Kapital per criticare gli eccessi del capitalismo, ed è probabile che sia destinato a riscuotere maggior successo del finora più noto Karl. L’arcivescovo difatti può poggiare i suoi ragionamenti su una realtà davvero sconvolgente, che è quella della caduta della civiltà agricola durata ben diecimila anni. Nel 1931, circa la metà della popolazione attiva italiana era addetta all’agricoltura, caccia e pesca, mentre oggi la percentuale degli addetti all’agricoltura si è ridotta enormemente, con l’aggiunta del fatto che gli agricoltori desiderosi di restare competitivi sul mercato devono organizzare le loro imprese in forme assolutamente nuove rispetto a quelle usate dai loro antenati, poiché devono sforzarsi di utilizzare tutte le risorse della modernità capitalistica: dai trattori ai computer fino agli esperti di mercato, capaci di prevedere i bisogni e le mode dei consumatori. La civiltà agricola dei nostri padri è insomma morta per sempre, proprio grazie alla rivoluzione del capitalismo industriale una rivoluzione ben più fortunata di quella socialista o comunista.
Ricordiamoci che il sistema capitalistico – in Italia e nel mondo – fu capace di superare la crisi del 1929. I marxisti di oggi affermano che la crisi attuale sarebbe più grave della precedente, proprio per non perdere le speranze, ma non mi sembra che finora abbiano presentato prove atte a documentare questa maggiore gravità.
La vera crisi, ai miei occhi, è invece quella che deriva dalla morte della plurimillenaria civiltà contadina o agricola, a favore della quale si batterono, senza successo, i totalitarismi del XX secolo. Senza successo perché il passato agricolo non tornerà mai più. Mussolini, un po’ meno totalitario di Hitler o di Lenin, promosse la battaglia del grano nell’estate del 1925. L’11 marzo 1926, in Senato, elogiò le classi più umili, “quelle che sono radicate alla terra, quelle che sono ancora sufficientemente barbare per non apprezzare tutti i vantaggi del cosiddetto comfort moderno”. Nell’ottobre di quello stesso anno il “duce” premiò i “laboriosi e silenziosi” agricoltori distintisi nella battaglia del grano e preannunciò la bonifica delle paludi pontine. Mussolini era un contadino, poi divenuto socialista, ma una volta salito al potere avrebbe desiderato governare sopra un mondo tranquillo e ordinato come appunto gli sembrava essere quello della civiltà contadina.
Nel marzo 1927 il “duce” scrisse una breve ed assai significativa lettera al ministro Giovanni Giuriati, il quale era anche presidente del comitato permanente delle migrazioni interne. Dopo aver lodato l’opera svolta da tale comitato, Mussolini scrisse queste testuali parole: “Ora si tratta di passare alla fase legislativa. Ma si tratta soprattutto di finanziare la colossale impresa. […] L’urbanesimo assume anche in Italia aspetti sempre più inquietanti. […] Il coefficiente di natalità è disceso dal 32 al 27 per mille e in talune provincie è già inferiore a quello della Francia. Bisogna ruralizzare l’Italia, anche se occorrono miliardi e mezzo secolo” (Archivio centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio, Gabinetto, Atti (1934-36) busta 810, fasc. 1-1-23/3299-2 A).
Hitler fu ruralista come e perfino più di Mussolini. Nell’autobiografia affermò: “La possibilità di conservare una sana popolazione agricola non può mai essere abbastanza lodata. […] Una forte popolazione di piccoli e medi contadini è sempre stata la migliore difesa contro tutti i morbi sociali che oggi ci opprimono”. Come i marxisti tornati oggi di moda, Hitler giudicava lo sviluppo industriale inaffidabile e precario, dato che poteva essere gonfiato nel corso di pochi anni, per assomigliare poi a una bolla di sapone. […] “L’industrializzazione del Paese gigantesca quanto pericolosa” costituiva a giudizio di Hitler il male che aveva cominciato a colpire la Germania già prima della Grande Guerra. La cultura urbana, ovvero la manifestazione più alta delle civiltà antiche e nuove, veniva istericamente condannata da Hitler quale responsabile della corruzione, della prostituzione, della decadenza generale. Erich Fromm ha del resto affermato che le masse tedesche si sottomisero a Hitler proprio per sfuggire al disagio politico, sociale e psicologico, suscitato in loro dalla rivoluzione del capitalismo industriale. George Mosse ha ribadito che Hitler vinse perché interpretò le aspirazioni nazional-patriottiche “di coloro i quali vedevano le proprie radici spirituali scalzate dall’industrializzazione e dall’atomizzazione dell’uomo moderno”. Ogni tanto continuo a stupirmi del fatto che tanti storici contemporanei si dimentichino di Fromm, di Mosse e di tutto ciò.
Lenin a sua volta si illuse di poter compiere un salto nel futuro, sottraendo la Russia alla fase della rivoluzione capitalistica. Fallì completamente e fu costretto a reintrodurre elementi di capitalismo con la Nep (la Nuova politica economica). Nel 1917, pochi giorni prima di conquistare il potere, aveva pubblicato un saggio intitolato Stato e Rivoluzione, ove disse che la burocrazia sarebbe stata quasi interamente eliminata. Lenin immaginava una gestione del potere così semplice da essere alla portata di tutti, anche dell’operaio e del contadino capaci di leggere, scrivere e fare le quattro operazioni aritmetiche elementari.  Bastarono due anni di governo e forse anche meno perché gli apparisse tutta l’irrealtà di un tale progetto.
Il 19 marzo del 1919, all’VIII Congresso del Partito comunista russo, Lenin dovette confessare apertamente di aver fallito. Dichiarò: “Questo vecchio elemento burocratico zarista prima l’abbiamo scacciato […] poi abbiamo ricominciato ad affidargli muovi posti. I burocrati zaristi sono passati a poco a poco nelle istituzioni sovietiche, in cui diffondono il burocratismo. Si travestono da comunisti e, per una migliore riuscita della loro carriera, si procurano la tessera del Partito comunista russo. Così dopo essere stati scacciati dalla porta rientrano dalla finestra!”. In un opuscolo di quello stesso anno 1919, sottolineò che disfarsi dei burocrati sarebbe stato come suicidarsi: “Per costruire il comunismo non abbiamo che il materiale creato dal capitalismo”.
Il grande evento che mostrò il volto demoniaco della modernità e che traumatizzò l’Europa fu proprio la Grande Guerra di cui celebriamo in questi giorni la conclusione. In Italia la Grande Guerra pose termine alla civiltà delle élites, introducendo la civiltà delle masse. Ma queste masse, in larga misura composte da ex contadini, avevano assistito sgomente agli sviluppi demoniaci del capitalismo industriale: armi sempre più potenti, micidiali gas asfissianti, aerei in grado di portare la guerra nelle pacifiche retrovie, uccidendo molti cittadini inermi.
Il capitalismo, grazie alla sua rivoluzionaria vitalità, riuscì a superare sia la prova della Grande Guerra sia quella dei totalitarismi sapendo ritornare alla democrazia così intimamente legata alla sua essenza. Per questo non riteniamo che i profeti delle sue sventure, oltre a fornirci una ulteriore dimostrazione della loro ignoranza storica, esprimano soprattutto un wishful thinking.
 

 

 
 
 
 
 


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