Quale sarà la maggiore sfida per la politica italiana quando l’emergenza coronavirus sarà finita? “Ricostruire la fiducia nelle istituzioni, a partire dalla politica stessa”. A crederlo è Mario Ricciardi, direttore della Rivista Il Mulino, professore di Filosofia del diritto all’Università statale di Milano che in una conversazione con Formiche.net analizza le difficoltà che la politica e la società stanno affrontando in questo momento di crisi sanitaria. L’atmosfera, con l’aggravarsi della crisi, sta cambiando, e anche se il clima non è da governo di unità nazionale, da parte di tutti c’è la volontà di lasciar perdere le polemiche. Serve uno sguardo al passato per immaginare il futuro: “Se prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale lei avesse fatto un’inchiesta sul futuro politico di Winston Churchill, buona parte degli addetti ai lavori le avrebbe risposto che non c’era. Churchill era un politico finito, che si era messo ai margini della politica britannica per via dei suoi errori e della sua inaffidabilità. Poi le cose cambiarono, in modi inattesi. Certo, oggi non si vedono Churchill in giro…”.
Professore, è un momento critico per l’Italia — ma non solo — che si trova in queste settimane ad affrontare una delle più gravi crisi sanitarie degli ultimi decenni. Che conseguenze avrà sulla politica nostrana?
Difficile fare previsioni nel lungo periodo. In generale possiamo dire che la crisi è una sfida che metterà a dura prova la capacità di reazione dell’attuale ceto politico. Più destabilizzante, rispetto alla crisi economica, perché sta avendo un impatto molto rapido sulla vita delle persone.
Cosa intende?
Oltre a sentirsi esposti a una minaccia invisibile, il virus, c’è la riduzione significativa delle libertà. Modalità di relazione con il prossimo che vengono sconsigliate, luoghi (le zone rosse) da cui non si esce e nei quali non si entra. Tutto questo rappresenta un cambiamento improvviso. Poi c’è l’incertezza per il futuro: fino a quando durerà? Quali saranno le conseguenze? Quante le vittime? Quali delle misure introdotte in questi giorni sono destinate a rimanere in vigore, e quanto a lungo? Chiaro che coloro che hanno la responsabilità di prendere le decisioni da cui in parte dipendono questi cambiamenti sono sottoposti a un’enorme pressione. Lo abbiamo visto nella dinamica che si è instaurata tra amministrazioni locali (Regioni e Comuni soprattutto) e governo nazionale.
L’approccio è cambiato dall’inizio della crisi? E come?
Nelle ultime ore, in corrispondenza dell’aggravarsi della crisi, e con il pericolo di un collasso del sistema sanitario, vediamo che quasi tutti stanno modificando l’approccio e in parte i toni. Non dico che ci sia un’atmosfera da governo di unità nazionale, ma certamente si cerca di non esasperare le polemiche. Contribuisce a questo cambiamento il fatto che l’attenzione dei media si sta spostando dai “trouble-makers” (Salvini, Meloni e Renzi) ai “problem-solvers”, in particolare a quelli che hanno ruoli istituzionali. La domanda che mi sto facendo in queste ore è se questa situazione non possa rivelarsi anche un’esperienza formativa per una classe dirigente che, anche meramente per ragioni generazionali, non ha dovuto far fronte ai momenti drammatici che il nostro Paese ha vissuto nella seconda metà del Novecento. Pur con tutte le perplessità che si possono avere nei confronti di alcuni esponenti dell’attuale governo (penso in particolare ad alcuni ministri che appartengono al M5S, che fino ad ora non hanno certo brillato) credo che in questo momento le persone ragionevoli non possono che sperare che ciascuno sia all’altezza della sfida. Se fallissero il costo sarebbe davvero troppo alto per tutti.
Come si può affrontare una crisi di questo tipo in una società globalizzata come quella attuale? È possibile – o necessario – ripensarne le sue basi?
Uno sguardo allo storia ci fa capire quanto le cose siano cambiate. Un tempo i viaggi intercontinentali erano lunghi e costosi, e venivano intrapresi da numeri relativamente piccoli di persone. Anche le informazioni circolavano ad un ritmo meno sostenuto, e impiegavano più tempo per raggiungere le località più remote. La diversità linguistica era un ostacolo ulteriore, da non sottovalutare. Una notizia proveniente dalla Siberia, per avere un impatto a Londra, doveva arrivare sotto forma di informazione già decifrata, o comunque decifrabile per un parlante inglese.
E oggi?
Oggi tutto questo avviene nel giro di qualche secondo, e sono milioni le persone che viaggiano in tutto il globo. Ciò detto, c’è indubbiamente da riflettere sul modo in cui le nostre società hanno reagito a questa epidemia. Ancora un paio di settimane fa, quando la gravità della situazione era già evidente, nonostante il controllo imposto dal governo cinese alla circolazione delle informazioni, molti erano ancora convinti che il coronavirus fosse qualcosa che non ci riguardasse. Abbiamo perso tempo prezioso in polemiche assurde (è solo un’influenza, no non lo è) ritardando la risposta per via di reazioni irragionevoli (Milano non si ferma). Ci sono volute le prime stime sull’impatto che la crisi rischiava di avere per la tenuta del sistema sanitario nazionale perché si cominciasse a fare davvero i conti con l’emergenza. Ora vengo al punto.
Prego.
Se il problema è globale, è ovvio che la risposta debba essere globale. Che una cosa sia ovvia, tuttavia, non vuol dire che sia accettata nelle sue conseguenze da tutti. Sotto questo profilo la gestione della crisi economica mi induce a un certo pessimismo. Anche in queste prime settimane stiamo assistendo a reazioni diverse da parte dei governi nazionali, che spesso sono dettate più dalle preoccupazione per il consenso o per la stabilità interna dei diversi paesi, che dalla volontà di cooperare efficacemente su scala internazionale. Anche le raccomandazioni dell’Oms non sono immediatamente operative, richiedono una cooperazione attiva dei governi per essere implementate in modo efficace.
Che rischi si corrono, in questo senso?
Una pandemia con effetti seri potrebbe rafforzare tendenze già in atto che vanno verso un rafforzamento della politica nazionale a discapito della dimensione sovranazionale. Più conflitto e meno coordinamento e cooperazione. Questa potrebbe essere una cattiva notizia per l’Europa, che è stata pensata in un orizzonte molto diverso da quello che si sta delineando dall’inizio di questo secolo. C’è senza dubbio da ripensare le basi del nostro modo di vivere. In particolare per quel che riguarda i profili dell’equità, del ruolo dei mercati, del finanziamento della ricerca e della sanità. Temo tuttavia che non sarà un processo facile o indolore. Chi si troverà in una posizione di vantaggio sarà restio a rinunciare a una parte del proprio potere (o della propria ricchezza) per avere una società più giusta.
Si è aperto il dibattito sull’efficacia dell’azione del governo nei momenti di difficoltà come questo. Come valuta l’operato del governo italiano?
Come dicevo prima il governo sta operando in una situazione molto difficile. In circostanze come quelle in cui ci troviamo le scelte politiche sono spesso “tragiche”, il che vuol dire che per garantire un certo risultato o valore se ne deve sacrificare un altro, che non trova compensazione. Lo sanno bene i nostri concittadini che in questo momento si trovano a subire una restrizione della propria libertà personale. Che serva per garantire la loro sicurezza e quella degli altri può essere una consolazione, ma non rende la privazione della libertà meno reale. Certo la confusione generata dalle ripetute “anticipazioni” di questi giorni non aiuta a rendere efficaci le misure di prevenzione, credo che sia indispensabile una revisione delle procedure di comunicazione.
La richiesta di una collaborazione tra maggioranza e opposizioni potrebbe modificare i rapporti tra le diverse forze politiche in futuro?
Possibile, se e quando si tornerà a votare. Per ora è difficile fare previsioni. Una cosa mi sento di dire però. Credo che le traiettorie politiche di quelli che prima ho chiamato trouble-makers potrebbero cambiare in modo significativo se la crisi fosse lunga, come temo sarà. D’altro canto, alcuni dei problem-solvers potrebbero vedere la propria popolarità accresciuta, se riuscissero a mostrare di essere persone affidabili. Le grandi sfide hanno questa caratteristica. Se prima dello scoppio della seconda guerra mondiale lei avesse fatto un’inchiesta sul futuro politico di Winston Churchill, buona parte degli addetti ai lavori le avrebbe risposto che non c’era. Churchill era un politico finito, che si era messo ai margini della politica britannica per via dei suoi errori e della sua inaffidabilità. Poi le cose cambiarono, in modi inattesi. Certo, oggi non si vedono Churchill in giro…
Quale sarà la sfida maggiore per la politica italiana, una volta superata la crisi?
Ricostruire la fiducia nelle istituzioni, a partire dalla politica stessa.