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Il coronavirus non scoraggia Putin. Niet sul petrolio ai sauditi

L’accordo per prolungare ulteriormente i tagli alle produzioni di petrolio e rialzare i prezzi è saltato. Il sistema Opec+, guidato da Arabia Saudita e Russia, non ha raggiunto un’intesa, i tagli finiranno a marzo, e Riad a questo punto annuncia di aumentare le produzioni e far scendere ulteriormente il prezzo del petrolio.

Una situazione che teoricamente non è proficua per nessuno dei produttori, perché di fatto le casse pubbliche di questi Paesi sono spesso vincolate al valore del greggio (e di altre materie prime, talvolta collegate). Nella riunione organizzata ieri, gli stati Opec avevano proposto di accollarsi per due terzi il taglio delle produzioni, ma Mosca non ha accettato di occuparsi dell’altro terzo insieme alla repubbliche satelliti.

Perché? Probabilmente in questo momento le casse russe sono in miglior forma di qualche anno fa, anche grazie alle rigide misure di austerity scelte dal presidente Vladimir Putin: i russi contano sulle quarte riserve valutarie al mondo, beneficiano di un export favorito dal rublo debole, hanno tagliato la spesa pubblica. Per questo hanno fissato il prezzo di equilibrio attorno ai 50 dollari al barile. Per l’Arabia Saudita invece il valore dovrebbe essere attorno ai 90.

Dietro alla mossa ci sarebbe dunque una strategia, che è sostanzialmente quella di accrescere il peso nello scacchiere complesso internazionale. Mosca riesce in questo modo ad aumentare le proprie carte nei confronti di Riad e dei paesi produttori mediorientali, stressando il dossier. Allo stesso tempo mette in difficoltà il mercato americano, che è legato al sistema shale – il quale ha bisogno di prezzi alti per essere competitivo, in quanto la tecnologia estrattiva è più costosa di quella classica.

Si tratta però di una improvvisa inversione a U rispetto ai precedenti tentativi di sostenere il mercato petrolifero mentre il nuovo coronavirus intacca la domanda globale. Una fonte dal mercato energetico ci confida in privato che il gioco è delicato, perché uno scenario “20-20”, ossia in cui nel 2020 si arrivi a un prezzo del petrolio attorno ai venti dollari al barile, a questo punto è molto meno irrealistico: “Con enormi implicazioni dal punto di vista geopolitico, sopratutto considerando che ci sono petro-cleptocrazie collegate al valore del bene che vivono momenti terribilmente delicati: basta pensare all’Iraq o all’Iran. E pensare sopratutto al collegamento con l’effetto ancora poco chiaro, ma potenzialmente devastante per l’economia globale, del Covid-19”.

Venerdì i benchmark petroliferi sono crollati, con il Brent che è sceso attorno ai 45 dollari al barile anche perché i sauditi, capite le intenzioni russe, avevano minacciato la possibilità di attivare sconti ad aprile attorno ai 4-6 dollari (i più alti di sempre) e aumentare le produzioni dai 9,7milioni di barili giornalieri a oltre 10 – come mai successo nell’ultimo anno. Contemporaneamente a destabilizzare il mercato ha contribuito anche il ministro dell’Energia russo, Alexander Novak, che ai giornalisti presenti a Vienna per la riunione dell’Opec+ ha dichiarato che dal primo aprile anche la Russia avrebbe lavorato “senza badare alle quote o alle riduzioni che erano in atto in precedenza”.

Novak ha poi lasciato la riunione prima del previsto, rendendo impossibili le decisioni odierne. E a quel punto Riad ha deciso di diffondere le informazioni sulle sue prossime mosse, essenzialmente pensate per superare la concorrenza russa sul mercato asiatico ed europeo, in modo da convincere Mosca a siglare un nuovo accordo.

Il sistema internazionale che raccoglie i produttori Opec e quelli non-Opec (come la Russia, secondo produttore al mondo), negli ultimi anni ha garantito l’andamento del mondo del petrolio. Però attualmente i paesi membri sembrano indirizzarsi verso una guerra dei prezzi – che arriverebbe oltretutto in una fase evidente del calo della domanda dovuto all’epidemia.

Il coronavirus, secondo un’analisi approfondita prodotta dal vicedirettore dell’Atlantic Council, Reed Blakemore, ha già colpito il mercato del petrolio in due modi. Primo, riducendo gli spostamenti a causa delle misure contenitive e dei viaggi annullati e/o evitati in forma precauzionale. Secondo, la reazione dei mercati finanziari che prevedono una contrazione dell’economia globale a cui si collega un calo di consumi: situazione che di conseguenza comporta diminuzioni sulla domanda previsionale.

Barkleys a gennaio prevedeva una diminuzione di richiesta attorno ai 6/800mila barili nel primo trimestre dell’anno, che poi si sarebbe stabilizzata attorno ai 200mila per tutto l’anno. Ma quella proiezione non teneva conto della situazione in Europa, dove il caso dell’Italia è solo un primo passaggio, e quella degli Stati Uniti, dove l’amministrazione Trump sta cercando di minuzzare una diffusione del COVID19 che dà indicazioni di essere invece piuttosto elevata. Già a febbraio, un comitato tecnico dell’Opec aveva raccomandato “una riduzione di altri 600mila barili rispetto a quelli già in atto (ora sospesi) per contrastare “l’epidemia di coronavirus in Cina e il suo potenziale impatto sul mercato petrolifero”.



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