“Never waste a good crisis.” Il Presidente cinese Xi Jinping, dopo essere sparito dai radar nel pieno inferno della crisi a Wuhan, ha visitato il capoluogo della provincia dove è esplosa il coronavirus. Più che da segnale che la tendenza è stata invertita, la sua visita veicola una serie di messaggi che da qualche settimana sono la vera (pre)occupazione del Partito comunista cinese per affermare la sua prepotenza interna e sulla scena mondiale.
Qualcuno potrebbe aver pensato – o addirittura sperato – che la crisi sanitaria mondiale scatenata nel mondo dalla censura e dagli insabbiamenti iniziali del regime oppressivo del Partito comunista cinese avrebbe finalmente aperto gli occhi ai responsabili politici e mediatici nel mondo occidentale. Ma mentre il buon senso popolare sembra aver centrato maggiormente il “pericolo cinese”, avendo visto il re nudo in tutto il suo splendore, buona parte dell’establishment rafforza la sua convinzione che si tratta di un regime superiore, da non contrastare e – se si riesce – da copiare. Il tutto ovviamente sorvolando completamente il fatto che si tratta di un regime autoritario che ha apertamente dichiarato guerra a tutti i valori fondamentali delle nostre società.
È indubbio che la esagerata fiducia in un regime sanguinario che, grazie a 70 anni di esperienza, eccelle nel coprire le sue continue stragi – interni e all’estero -, e la sottomissione di tanti, troppi Paesi e istituzioni internazionali al governo di Pechino abbiano procurato dei ritardi nelle risposte adeguati anche da noi. Ma mentre noi ci troviamo nel pieno della crisi, ecco che Pechino sta già sfruttando appieno la sua capacità propagandistica, costruita con investimenti statali miliardari e echeggiato da politici e giornalisti anche nel nostro Paese.
Le istruzioni del Dipartimento centrale di Propaganda sono chiare: va contrastato in modo assoluto che il virus abbia le sue origine in Cina. Va affermato che il sistema cinese abbia comprovato la sua superiorità nel sconfiggere il virus. Il mondo deve ringraziare Pechino, e Xi Jinping in modo particolare, per i sacrifici compiuti.
Gli strumenti a disposizione del regime includono la solita repressione e censura di blogger, voci indipendenti e dissidenti, le lettere di ammoniti e pressioni diplomatiche a politici e giornalisti, e infine, proposte di “educazione alla gratitudine” per aiutare la popolazione di Wuhan ad esprimere appieno la sua gratitudine verso il supremo leader.
Che queste disposizioni sono di una priorità assoluta è evidente dalle azioni intraprese nelle ultime settimane: è già uscito a fine febbraio in ben sei lingue un libro pubblicato dal Dipartimento centrale di Propaganda che racconta come la Cina abbia vinto la “guerra del popolo” contro la malaria sotto “la guida centralizzata e unificata del Comitato centrale del Partito comunista con al centro il Compagno Xi Jinping”.
E mentre in Italia l’ambasciata della Repubblica popolare cinese si rivolge al popolo italiano su twitter con un messaggio di solidarietà, l’ambasciatore cinese a Canberra si è dato da fare in questi giorni per ammonire i corrispondenti stranieri. Come denuncia Michael Smith, corrispondente australiano, l’ambasciatore gli ha inviato un’email, sottolineando i commenti del ministro degli Esteri cinesi sui riferimenti “altamente irresponsabili” di alcuni media al “virus cinese”, mentre la nozione che il virus è nato in Cina è “senza prove di supporto”.
“Sebbene l’epidemia sia scoppiata per la prima volta in Cina, ciò non significa necessariamente che il virus provenisse dalla Cina, e soprattutto non si parli di “Made in China”, ha twittato domenica l’ambasciatore cinese in Sudafrica Lin Songtian.
Eppure, fino al 27 febbraio, erano gli stessi media statali cinesi a riportare che probabilmente l’epidemia Covid-19 è iniziata nel mercato di Huanan a Wuhan, che è stato chiuso all’inizio di gennaio. Il direttore stesso del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie cinese, Gao Fu, ha dichiarato in una conferenza stampa del 20 gennaio che le autorità credevano che il virus potesse provenire da animali selvatici sul mercato del pesce, sebbene la fonte esatta non fosse chiara.
Il cambio di rotta arriva il 27 febbraio, quando Zhong Nanshan, uno scienziato a capo del gruppo di esperti del governo che sovrintende gli sforzi per contenere l’epidemia dichiara durante una conferenza stampa che “il coronavirus è apparso per la prima volta in Cina, ma potrebbe essere nato altrove”. Le sue osservazioni hanno dato inizio a uno sfogo di commenti anti-americani sulle piattaforme social cinesi, suggerendo che il Covid-19 provenisse dagli Stati Uniti. L’apparato di propaganda cinese non si è spinto fino al punto di dichiarare apertamente che l’epidemia abbia le sue origini nella terra del nemico strategico, ma certamente non scoraggia chi diffonde tale teorie di cospirazione e da una decina di giorni alcuni suoi media statali stanno veicolando il messaggio.
Ora, tecnicamente è vero che finché non si identifichi la fonte esatta del coronavirus non si possono accertare al cento per cento le sue origini. I primi casi confermati erano persone che avevano visitato o lavoravano al mercato di Huanan, ma come afferma un rapporto dell’Oms del 25 febbraio, la fonte animale non è ancora stata identificata. È altrettanto vero che visto l’esperienza del regime cinese di riscrivere la storia e nascondere i misfatti, che probabilmente non ne daranno mai la conferma se dovessero scoprirlo ora.
Tuttavia, il punto non riguarda l’origine precisa del coronavirus, ma gli sforzi del governo centrale per deviare le critiche sul fallimento delle autorità di segnalare la crisi sanitaria durante quelle settimane cruciali di gennaio prima che milioni di persone hanno lasciato la città per il capodanno cinese.
E queste critiche sono ancora molto vive all’interno della Cina, e in particolare a Wuhan dove decine di milioni di persone sono state rinchiuse nelle loro case per sei settimane, come ha potuto constatare il massimo funzionario del Partito comunista nella città, Wang Zhonglin. La scorsa settimana, forse in vista della visita del presidente Xi, Wang ha suggerito il lancio di “educazione alla gratitudine” per aiutare i cittadini di Wuhan ad esprimere appieno la loro gratitudine verso il presidente.
Il suggerimento non è stato ben accolto ed è stato cancellato di seguito. Ma è emblematica la risposta di un giornalista cinese condivisa da milioni di utenti: “Chiunque sente autentico dispiacere per Wuhan non direbbe un cosa del genere. La città è stata colta impreparata e non ha potuto gestire la crescita esplosiva del virus. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è l’insegnamento a essere grati.”
Credo che nonostante gli sforzi di propaganda del Partito comunista sulla superiorità del suo sistema e la sua gestione, quando arriverà la fine di questa crisi anche qui, la maggior parte degli italiani si troverebbe ancora in accordo con quest’ultimo.