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Aspettando la riscossa

Per larga parte del Novecento, i cambiamenti sociali ed economici del Paese sono stati accompagnati dall’avvicendarsi di generazioni che seguiva uno schema comune. La generazione dei figli era più numerosa, e più ricca di prerogative, di quella dei padri. Sulla numerosità ci confortano precise statistiche: fino verso gli Anni ‘70, le nuove generazioni di giovani erano più numerose di quelle cui appartenevano i loro genitori, nati una trentina di anni prima. Ma successivamente la tendenza si è invertita – come è ben noto – e i figli hanno cominciato ad essere meno numerosi delle generazioni dei padri, consegnando la demografia del Paese ad una spirale discendente contrastata solo dalla crescente immigrazione. Tuttavia il rafforzamento delle prerogative individuali – componenti fondamentali del capitale umano – da una generazione alla successiva è continuato nel prosieguo del secolo. I giovani degli Anni ‘80 e ‘90 hanno sicuramente goduto di standard di vita assai migliori di quelli dei loro genitori e rispetto a questi hanno avuto più salute, maggiore capacità di controllo e scelta dei comportamenti bio-demografici (unione, riproduzione,mobilità), più istruzione, più opzioni percorribili, aspettative migliori. Insomma, per quasi tutto il Novecento, la crescente disponibilità di risorse umane, dotate di prerogative rafforzate e migliori, ha accompagnato e sostenuto la crescita; potremmo anche affermare che l’incipiente erosione numerica dei giovani è stata vigorosamente controbilanciata dalla maggior qualità del capitale umano. In altri termini ancora, ogni ulteriore individuo, alla sua piena entrata nella vita adulta, ha apportato rendimenti crescenti al funzionamento della società.
         Questa positiva tendenza ha perso slancio nella parte finale del Novecento, e rischia adesso di esaurirsi se non – addirittura – di capovolgersi. Della scarsità del numero abbiamo abbondantemente detto. Ma il giovane “aggiuntivo” rischia di non essere, adesso, portatore di rendimenti crescenti. Ulteriori miglioramenti dello stato di salute appaiono improbabili mentre hanno fatto capolino inquietanti segnali negativi (depressione, obesità); le prerogative bio-demografiche (segnate dalla instabilità delle unioni, da una riproduzione inferiore alle aspettative, dalla scarsa propensione alla mobilità) non si sono rafforzate; l’accumulazione di conoscenza – nonostante la democratizzazione e l’estensione dell’istruzione – non procede con i risultati attesi. C’è, dunque, un deterioramento della quantità e, in aggiunta, un rischio di erosione della qualità delle nuove risorse umane che alimentano la società. C’è il rischio concreto di passare da una fase storica, segnata da risorse umane in espansione e con rendimenti crescenti, ad un’altra fase, contraddistinta da risorse scarse e rendimenti decrescenti (o solo debolmente crescenti).
         In questo quadro si inserisce l’evoluzione specifica delle giovani generazioni negli ultimi due o tre decenni, caratterizzata da due fenomeni tra loro interconnessi. Il primo è costituito dal rallentamento dei processi di transizione alla vita adulta e dall’accumularsi del ritardo con cui si entra a pieno titolo nella vita sociale ed economica. Questo fenomeno è stato analizzato sotto diversi profili – gli studi e la formazione, il lavoro, l’autonomia abitativa e quella reddituale, la famiglia, la riproduzione – che si intersecano e si rafforzano l’un l’altro, causando una vera e propria “sindrome del ritardo”. Sindrome che determina l’indebolimento delle prerogative dei giovani, la riduzione del loro spazio di azione, la perdita d’influenza, la minore presenza nelle posizioni che contano, il rallentamento delle carriere. Sono diminuiti i giovani nelle professioni, nelle alte funzioni pubbliche, tra i nuovi imprenditori, nella ricerca avanzata. Questa evoluzione – percorsi più lenti, risultati tardivi, incidenza minore – è stata indolore per una doppia ragione. Perché lo standard di vita dei giovani non ne ha sofferto grazie, soprattutto, ai trasferimenti all’interno delle famiglie. E perché la cultura e la società si sono adattate, rendendo possibili e accettabili il lungo parcheggio nel sistema formativo, le lunghe code di attesa per entrare nel mercato del lavoro o nelle professioni, le lunghe relazioni in attesa di una unione, un’estensione abnorme del concetto di gioventù ben oltre i confini tratteggiati dalla biologia. Grazie a questi anestetici, i risvolti negativi nei percorsi di vita individuali – il ridimensionamento dei desideri riproduttivi, le aspettative di carriera, la riduzione della ricchezza pensionistica – vengono percepiti in maniera attutita o, comunque, in ritardo.
         Eppure, sotto il profilo della collettività, la sindrome del ritardo provoca danni concreti anche se difficilmente misurabili. L’entrata tardiva (rispetto al passato, o rispetto ad altri Paesi) nel mercato del lavoro “vale” 1-2 milioni di occupati in meno, corrispondenti ad una economia significativamente “più piccola” (del 4-8 per cento). Il ritardo nell’entrare a pieno titolo nel mondo della ricerca costa una “perdita netta” di innovazione non recuperabile nel resto del ciclo di vita. Si potrebbe pensare che conseguenze analoghe abbia il ritardo nell’entrata in determinate professioni o attività per le quali le abilità legate all’età siano molto rilevanti (un violinista, un chirurgo…). Incluse, forse, quelle attività imprenditoriali nelle quali gli animal spirit (certo più vivaci nelle giovani età) siano determinanti. Su un altro versante, il ritardo nel decidere di metter su famiglia e di avere figli costa una riduzione della fecondità (le aspettative e gli ideali riproduttivi non si accordano con l’orologio biologico femminile) e determina una riduzione del numero di figli. Ma ci sono sicuramente altri aspetti della vita collettiva che in qualche modo risentono negativamente della transizione frenata alla vita adulta e che prevalgono su quegli aspetti (che pur esistono) che guadagnano qualcosa. È questa la tesi – non molto originale, per la verità – di queste pagine: la sindrome del ritardo ha un costo privato relativamente basso o scarsamente percepito, ma un costo pubblico rilevante. È una delle ragioni rilevanti dello sviluppo frenato del Paese e dello svantaggio rispetto ad altri Paesi europei. E l’obiettivo principale delle politiche deve essere quello – arduo e complesso – di smontare, sciogliere, dipanare l’intreccio di cause della sindrome.
         Queste pagine, si dirà, abbondano in descrizioni, ma scarseggiano di proposte. È vero, anche se, qua e là, qualche segnale è stato avanzato: sulle seconde generazioni di immigrati, sull’università, sull’autonomia dei giovani, su donna, lavoro e fecondità. Tuttavia l’obiettivo primo era di valutare la complessità e le dimensioni della questione giovanile: valutazioni necessarie se le politiche debbono cercare di “smontare” la sindrome. E  ci consigliano alcune direttrici di marcia. Anzitutto le politiche settoriali – della formazione, del lavoro, familiari, abitative, fiscali e altre – debbono essere strettamente coordinate tra loro e valutate per l’effetto che hanno sopra il rafforzamento, o potenziamento, delle prerogative dei giovani. L’allungamento dei percorsi formativi terziari; la frammentazione delle sedi universitarie; il sostegno all’acquisto della casa anziché all’affitto; politiche tributarie incentrate sul quoziente familiare: sono azioni che hanno finalità positive e apprezzabili ma che non risolvono i problemi qui descritti. Si può accumulare più conoscenza, ma in tempi troppo lunghi; si evita il disagio del fuori sede, ma si precludono autonome esperienze; si immobilizzano capitali per l’acquisto della casa ma si comprime la mobilità; si alleggerisce il carico tributario delle famiglie con figli, ma si scoraggia il lavoro della donna. Sono politiche che cristallizzano (anziché indebolire) la sindrome del ritardo e non  rafforzano le prerogative giovanili. L’effetto voluto potrebbe invece essere avvicinato altrimenti: investendo sulla scuola secondaria e valorizzando la formazione di chi non prosegue gli studi terziari; responsabilizzando maggiormente, anche fiscalmente, gli studenti universitari e le loro famiglie al fine rendere normale la conclusione degli studi nei tempi assegnati; investendo più in case dello studente e meno in sedi decentrate; dando più sostegno all’affitto e meno all’acquisto; fornendo più servizi e strutture al lavoro femminile.
         Un altro insegnamento è che il rafforzamento delle prerogative giovanili è la chiave per assicurare una ripresa della natalità e per ridurre il divario tra ideali-aspettative riproduttive e comportamenti effettivi. La crisi delle nascite è anche crisi dello empowerment giovanile: se la permanenza in famiglia è troppo lunga, si riproducono le asimmetrie di genere e aumenta per la donna il costo di allevamento dei figli; se il lavoro per le donne è poco, aumenta l’insicurezza e diminuisce l’inclinazione ad avere figli; se gli spazi decisionali sono ristretti e le esperienze di autonomia scarse, si indebolisce il desiderio di genitorialità. I trasferimenti economici, se non orientati al potenziamento delle prerogative indebolite, non sono efficienti per assicurare una maggiore natalità.   
         Infine, poiché la “riscossa” dei giovani è urgente, occorre mettere in campo risorse ingenti. Risorse che potrebbero avere un buon rendimento: se l’obiettivo di riportare l’occupazione giovanile a livelli europei fosse ottenuto nel giro di dieci anni – per esempio – ciò equivarrebbe ad una crescita aggiuntiva del Pil tra il mezzo punto e il punto percentuale all’anno. Non sarebbe un calcolo sbagliato se, a questo fine, si investissero risorse corrispondenti.
         Tutto questo non basterà se, assieme alle condizioni materiali ed ai modi di funzionamento della società, non muteranno anche le ambizioni, le aspettative e gli ideali. Il mutamento dei primi non è sufficiente per determinare il cambio dei secondi. Ma qui inizia un discorso diverso che l’autore non è in grado di affrontare.


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