6 marzo scorso. Emmanuel Macron dopo essere andato a teatro con la moglie Brigitte, ed aver detto che “la vita deve continuare”, si è concesso una passeggiata, con gelato, sugli Champs Élysées. Dieci giorni dopo, a reti unificate, ha comunicato ai francesi: “Siamo in guerra”. Ed ha chiuso le scuole per tre settimane, i bar, i bistrot, le brasserie, i ristoranti, i locali notturni, teatri, e quant’altro. La metropolitana, pur non subendo limitazioni, è deserta. Parigi è spettrale. Soltanto prima del discorso del presidente pullulava di gente. Sabato sera, mentre nei ristoranti si cenava, verso le 22,30 i camerieri discretamente hanno comunicato agli avventori che stavano per chiudere e, dunque di affrettarsi. La “soffiata” era arrivata.
La ricetta italiana ha fatto breccia all’Eliseo, dunque. E la Francia conta quasi seimila contagiati e 148 morti. La gaiezza della “douce France” non ha retto all’impatto con la dura realtà.
Alla fine di una giornata in cui Macron è stato impegnato a contare voti del primo turno delle municipali, è dunque arrivato l’atteso annuncio. La severità dei provvedimenti, con annesse chiusure delle frontiere e tanti saluti a Schengen. Una decisione storica mai adottata prima, ad imitazione di altri Paesi che soltanto qualche mese fa si scandalizzavano se qualcuno prospettava una misura del genere.
L’Italia, accusata di antieuropeismo, non è arrivata a tanto. E lezioni dalla Francia, dalla Germania e da quasi tutti i Paesi europei che si sono chiusi nel loro guscio nazionale, non può proprio prenderne. Prende atto, invece, che l’Unione europea è finita. O almeno, dal punto di vista politico se non tecnico, il governo ed il Parlamento del nostro Paese davanti a provvedimenti come la chiusura delle frontiere dovrebbero avviare le procedure per una rimessa a posto della fragilissima comunità piegata da un virus che per lungo tempo si è negato lasciando – soprattutto da parte della Francia – sola l’Italia che prima, due settimane fa, in Europa affrontava drasticamente l’emergenza.
Le forti misure di restrizione negli spostamenti annunciati da Macron sono analoghe a quelle adottate dal nostro Paese. E ad esse vi ha aggiunto la sospensione delle riforme in corso, tra le quali quella delle pensioni che lo hanno messo letteralmente in ginocchio negli ultimi mesi.
Infine, ha rinviato il secondo turno delle elezioni municipali: è stato folle far celebrare il primo che oltretutto ha contribuito ad amareggiargli la giornata ancora di più. Macron, infatti, è stato sconfitto quasi ovunque, mentre – come si prevedeva – chi ha vinto è stato l’astensionismo che ha raggiunto la cifra record del 54,5 per cento. Nel 2014 era stato del 36 per cento. La maggior parte dei quarantotto milioni di francesi è rimasto a casa.
L’uscente sindaco di Parigi Anne Hidalgo, socialista, ha vinto con circa con circa il 30 per cento dei voti, davanti a Rachida Dati (Republicains) con il 22 per cento e ad Agnés Buzyn (La Republique en Marche!, il partito di Macron) con il 17 per cento. A Lione si è affermato il candidato ecologista Doucet (Eelv) con il sorprendente 25 per cento e un vantaggio considerevole nei confronti di Blanc (Les Republicaines) al 17 per cento e di Cucherat (La Republique en Marche!) al 15 cento.
La leader del Rassemblement National, Marine Le Pen, ha ottenuto un rotondo successo soprattutto nel Sud del Paese, ed ha confermato il suo radicamento nei comuni in cui ha vinto nel 2014: a Hénin-Beaumont, Villers-Cotterêts, Beaucaire, Fréjus, Hayange e Béziers. Perfino i socialisti sono resuscitati a danno di En Marche! Si sono affermati a Lille (dove la sindaca uscente Martine Aubry è prima davanti all’ecologista Stéphane Baly, a Nantes, Rennes, Le Mans, Clermont-Ferrand, Brest e soprattutto a Parigi (dove l’affluenza ha superato di poco il 43 per cento, contro il 56,27 per cento del 2014).
La République en Marche!, ha confermato di non avere un radicamento territoriale pari alle ambizioni politiche del suo, presidente ed è crollato quasi ovunque. Il primo ministro Edouard Philippe, candidato a Le Havre, ha superato di poco il 43% per cento, e andrà al ballottaggio con il comunista Jean-Paul Lecoq (al 35,9 per cento) che si prevede riuscirà a presentarsi con una coalizione comprendente anche le liste dei Verdi (che al primo turno hanno ottenuto più dell’8 per cento). Tra i dieci membri del governo che si sono candidati alle municipali Gérald Darmanin è stato rieletto al primo turno a Tourcoing, così come Franck Riester a Coulommiers. Le Monde, ha scritto che questi non strabilianti successi di periferia non riescono “a mascherare le difficoltà di La République en Marche!, che non sembra essere in grado di vincere in una grande città”.
La stella di Macron è sempre più calante. Il coronavirus, per come lo ha gestito, sottovalutandolo ed accorgendosi del suo potenziale catastrofico con colpevole ritardo, non lo aiuterà nel risalire nella considerazione dei francesi. I quali sembra si stiano rivolgendo nuovamente alle vecchie formazioni politiche, dai socialisti ai repubblicani post-gollisti, oltre che alla destra della Le Pen. Ma anche gli ecologisti conoscono una nuova stagione di interesse da parte degli elettori, a scapito di France insoummise di Jean-Luc Mélenchon, l’ultimo dei comunisti francesi per quanto all’acqua di rose.
Le elezioni sono passate. Il secondo turno (quando si terrà) confermerà la tendenza del primo. È il coronavirus che spaventa i francesi. I partiti sono morti nei loro pensieri. E Macron la cui sconfitta tra due anni è tutt’altro che fantasiosa, deve abbandonare le sue ambizioni di riformatore dell’Europa per cercare di governare un mostro che nessuno, neppure lui, poteva immaginare fino a qualche tempo fa.