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Cina, Venezuela e Iran. Ecco dove il virus dei dittatori è più contagioso

Il virus è un’arma potente. E non per inutili teorie complottiste. Sotto la coltre del bombardamento mediatico emergono sfide epocali. Se le paure popolari sono sempre uno strumento, chi governa, regimi a partito unico, autocrazie religiose, vecchie dittature hanno colto l’occasione per una grande offensiva politica e mediatica. Si tratta di un tentativo profondo di trasformare – o difendere – il loro senso di legittimità, di riconquistare il discorso pubblico globale, soprattutto di difendere i rapporti di forza interni. Certo, con una scala di risultati diversi.

In fondo alla classifica c’è il dittatore venezuelano Nicolas Maduro. Ha colto la palla al balzo prima accusando come untori i nemici colombiani e brasiliani, ora tentando di mascherare le terribili condizioni del sistema sanitario. Se i primi contagiati in Venezuela sono disperati (la dittatura ha distrutto tutti i servizi sociali), il regime ha ripulito le piazze che ancora la settimana passata inneggiavano al leader democratico Juan Guaidò.

Le sue denunce del capo dell’opposizione sono sommerse, ma in corso, la propaganda chavista è comunque la meno efficace. Le immagini della sanificazione del palazzo presidenziale, con i presunti operatori senza neppure guanti e mascherine, ha fatto sorridere esperti e commentatori, confermando il tratto tristemente folle del regime. Più professionali si sono mostrati i loro alleati e capi cubani. Hanno subito intercettato il potenziale mediatico-politico del virus. Con molte paure in più, visto che il turismo è l’unica risorsa dell’isola. In ogni caso il ministero della Salute ha annunciato interventi sostenuti – a suo avviso – da grande consenso. Il governo ha rilanciato, sulla scorta di una decennale esperienza di propaganda globale, rivendicando la presenza di brigate mediche cubane in decine di paesi.

Nella scala dei regimi, l’Iran è ancora più solido. Gli ayatollah cercano di minimizzare le conseguenze dell’epidemia, così forte nel Paese, occultandone i dati secondo gli osservatori internazionali (che hanno mostrato foto satellitari di fosse comuni a sud di Teheran). Altri team di ricerca sostengono che il numero di vittime e contagiati è esponenzialmente superiore. Invece il governo sottolinea il coraggio dei suoi esponenti colpiti, centralizzando ogni tipo di informazione esterna. La guida politica del regime iraniano, Hassan Rouhani, ha chiesto misure straordinarie. Il capo dell’esercito ha dato ordine a polizia e a pasdaran di liquidare brutalmente qualsiasi assembramento e riunione pubblica. Senza contare gli alleati filo-iraniani in Iraq, che due giorni fa hanno ripreso i loro attacchi missilistici.

Si potrebbe continuare, non sono da meno i regimi della Corea del Nord o del Nicaragua, ma il regime di Pechino, almeno ad oggi, ha vinto la guerra delle idee e della propaganda. Il Partito comunista cinese ha lanciato a tiratura sterminata un volume che annuncia come ha vinto il contagio, festeggiando il trionfo del suo leader. Per il governo l’epidemia non è nata in Cina, non ci sono proprie responsabilità, si respingono connessioni o discussioni su quello che è successo da novembre a gennaio. I capi delle proteste di Hong Kong sono quelli che con maggiore dettaglio invece denunciano le colpe del governo cinese, ma sono anche le vittime principali. Le loro piazze, le più pericolose per l’immagine del regime, sono quelle svuotate con maggiore successo, senza più nessun riflettore di una traumatizzata stampa mondiale.

La Cina si è anche presentata vincente in Europa. Forse l’aspetto più sorprendente è stata l’accoglienza del ministro degli esteri italiano a una squadra medica cinese con un aereo di materiali, accompagnati da applausi dai social. Verso gli Usa ha agito ieri, dichiarando l’espulsione dei principali giornalisti americani, per respingere le accuse che vengono dal sistema politico americana. In Italia ha trovato anche la solita accoglienza digitale di folle bisognose di prendersela con l’Europa (dopo aver follemente fantasticato su una presunta semi-invasione Usa). Insomma il conavirus è una grande partita politica, con le autocrazie più attrezzate e aggressive delle democrazie.

I regimi autoritari si presentano di fronte alle paure collettive, ai bisogni psicologici, alle nuove vulgate digitali, rivendicando una maggiore efficienza operativa. Sostengono che le loro capacità coercitive, l’uso di burocrazie obbedienti, la rapidità di decisione, la brutalità verso chi non è nelle regole, il silenzio delle opposizioni sono gli strumenti necessari per garantire la sicurezza, la protezione e la tranquillità delle popolazioni.

La guerra del virus non è solo una campagna funzionale alla repressione o al consolidamento interno. Si tratta di ribaltare una narrazione che dagli anni Ottanta, e dopo il crollo dell’Unione Sovietica, affermò la democrazia liberale vincitrice – definitiva – della sfida secolare con i progetti totalitari o autocratici. Un successo fortemente messo sotto accusa nell’ultimo decennio, giunto oggi ad una verifica epocale. La fragilità della democrazia anglo-sassone, con il successo al suo interno di opposti radicalismi multiculturali o isolazionisti, ha reso più credibile la beatificazione dei dittatori efficienti e la demonizzazione del liberalismo.

Senza contare che, a fronte dell’epidemia, la risposta degli Usa e dell’Europa è ancora una volta scoordinata, spesso priva di solidarietà, mostrando la complicata debolezza del mondo occidentale, spesso portato più a sviluppare la perenne critica verso le sue istituzioni, che a rafforzarle. Così, se il virus è stata una potente arma per le autocrazie, la capacità di superare la crisi e recuperare credibilità sarà il terreno di sfida delle democrazie liberali, in un inedito e sorprendente confronto sui rapporti forza politici ed ideologici globali. E soprattutto sulla narrazione della libertà e dell’autocrazia in epoca di crisi.

 

 

 

 



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