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In Libia l’Onu chiede la tregua umanitaria e… Haftar fa strage di civili

Sprezzante di un appello delle Nazioni Unite, ieri il signore della guerra dell’Est libico, Khalifa Haftar, ha colto l’occasione per intensificare gli attacchi su Tripoli – una campagna militare che oltre ai morti non ha portato ancora niente al capo miliziano.

L’Onu, attraverso la missione Unsmil e ottenendo il plauso generale della Comunità internazionale (sposato direttamente, tra gli altri, da Francia, Germania, Italia e Stati Uniti), aveva chiesto una tregua umanitaria sui combattimenti libici per permettere al Paese di affrontare l’emergenza del coronavirus. Ma Haftar ha provato un attacco per sondare sul fronte di Ain Zara e altre zone lungo l’hinterland meridionale della capitale. L’operazione si è chiusa con un insuccesso, le unità haftariane sono state respinte, ma hanno prodotto diverse morti e feriti civili (tra le vittime quattro ragazze tra i 14 e i 20 anni).

Haftar da oltre un anno sta cercando di conquistare la capitale tentando di rovesciare il Governo di accordo nazionale, esecutivo promosso dall’Onu e internazionalmente riconosciuto, e intestarsi il Paese come nuovo rais. Finora, dimostrando la sua poca capacità militare (che lo portò alla rottura con Gheddafi), l’intento del generale non è riuscito, nonostante abbia dalla sua parte una grossa forza militare.

L’emergenza coronavirus ha però creato problemi anche a Bengasi, la roccaforte dell’autoproclamato Feldmaresciallo. Qualche giorno fa Haftar ha lanciato una campagna di sanificazione, molto orientata alla propaganda, mentre ieri da ieri ha schierato i soldati per strada. Teme che il diffondersi dell’epidemia possa produrgli problemi di tenuta? Possibile – il susseguirsi degli insuccessi non sembra fermare gli appoggi che riceve dall’esterno, ma molti dei libici della Cirenaica sono stanchi della guerra, soprattuto se adesso l’epidemia dovesse diffondersi, aggravando le condizioni di vita già non rosee.

A proposito dell’appoggio dall’esterno, secondo fonti libiche nell’ultima settimana (il 12, il 15 e il 19 marzo) dei droni emiratini hanno condotto degli attacchi aerei, i primi da metà gennaio – sono la forza aerea principale di Haftar, ma erano stati messi in pausa dall’ingresso nel conflitto della Turchia, che ha disposto sul campo anche sistemi anti-aerei. Nella notte tra il 18 e il 19 marzo, invece, un drone turco avrebbe colpito la base aerea haftariana di al Wattyah, nei pressi di Zuwara: sempre secondo fonti locali l’attacco sarebbe stato condotto con un Anka-S – una tipologia di droni che ancora Ankara non aveva inviato in Turchia, ma che hanno lavorato pesantemente contro i governativi siriani lo scorse mese a Idlib.

Sia la Turchia che gli Emirati Arabi hanno avallato la richiesta dell’Onu di mettere in pausa le armi per permettere di gestire la crisi che il nuovo coronavirus potrebbe innescare. Secondo un report redatto dal think tank inglese Catham House, dal 2014 a oggi i gruppi armati in Libia sono diventati via via più forti e organizzati, penetrando in profondità le posizioni di potere. Ruolo che hanno acquisito anche grazie all’arrivo di armi straniere. Lo stallo diplomatico che ha seguito la conferenza di Berlino ha permesso di creare spazi ulteriori per l’invio di rifornimenti letali in Libia da parte degli attori esterni. Questo permette ai gruppi di aumentare la propria forza e agli sponsor da fuori di perpetrare il conflitto – d’altronde gli attori esterni hanno coinvolgimento ai minimi termini, e questo li porta su posizioni di spinta continua, pensando che la soluzione militare possa essere la via per fare scacco matto.



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