Questa abitudine di dire che siamo in guerra non mi piace. È un errore pensarlo, o meglio, è un errore presentare la difficilissima situazione che viviamo così. Sono retoriche sbagliate quelle che echeggiano in questo richiamo alla guerra: “la grande proletaria s’è mossa”, “credere, obbedire, combattere”, “mors tua vita mea”: ciascuno può trovare la retorica che maggiormente gli si si confà. La mia idea è molto diversa: c’è un confronto, tra il monismo del virus e il pluralismo della vita.
Il punto dunque è riscoprirsi diversi e uniti, diversi e dunque dipendenti l’uno dall’altro, non in guerra, ma alleati per respingere l’assalto monista e difendere il nostro pluralismo. Chi sarebbe contro di noi? I cinesi? I lombardi? Chi sarebbero gli untori? Loro non sono le vittime? Non sono le prime vittime? No, non ci servono capri espiatori e se c’è qualcosa alla quale i non malati possono dedicare il tempo casalingo è cercare dove loro hanno sbagliato ieri, per emendarsi e non ritrovarsi nella medesima emergenza domani.
Approfitto dei dati incredibili, sconvolgenti, almeno per me, che trovo sull’ultimo numero de La Civiltà Cattolica. Scrive padre Andrea Vicini: “Si stima che, nel 2019, 37,9 milioni di persone nel mondo siano state positive al virus Hiv. Se consideriamo le stime complessive dall’inizio della pandemia, le persone risultate sieropositive sono 74,9 milioni, con 32 milioni di decessi causati dall’Aids. Si calcola che, nel 2018, 3,2 miliardi di persone vivessero in aree a rischio di trasmissione della malaria in 92 Paesi del mondo (soprattutto nell’Africa sub-sahariana), con 219 milioni di casi clinici e 435.000 morti, di cui il 61% erano bambini con meno di 5 anni. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, 10 milioni di persone in tutto il mondo si sono ammalate di tubercolosi nel 2018, con oltre 1,2 milioni di decessi, di cui l’11% tra bambini e ragazzi con meno di 15 anni.”
Tutte queste epidemie sono oggi curabili, a differenza della pandemia che ci affligge oggi. Ci avrà fatto bene tanta indifferenza?
La non curabilità certa del coronavirus (ci sono delle terapie adattate, e spero producano molte guarigioni) è il dato che ci porta al precedente pandemico più grave, più inquietante. Lo ricorda così padre Andrea Vicini ricordandoci dell’influenza spagnola: “Si ritiene che circa 500 milioni di persone – un terzo della popolazione mondiale – siano state infettate da questo virus, con almeno 50 milioni di decessi a motivo dell’alta mortalità del virus. Senza vaccino e senza antibiotici per proteggere dalle infezioni batteriche associate, gli unici modi in cui fu possibile tentare di contenere e mitigare la diffusione della pandemia furono l’isolamento, la quarantena, la buona igiene personale, l’uso di disinfettanti e le riduzioni degli eventi pubblici, ossia quanto stiamo attuando ai tempi del coronavirus”.
Dunque dal punto di vista fattuale la prima novità è che epidemie oggi curabili, HIV, malaria, tubercolosi, mietano ancora tante vittime senza che queste risultino. Ma non basta questa constatazione ad archiviare la drammaticità dell’ancora non curabile pandemia che affrontiamo con una certezza, che è quella da cui parte padre Vicini: “Tutti siamo a rischio. Possiamo contrarre l’infezione e diffonderla ad altre persone, vivendo il doppio ruolo di vittime e di diffusori dell’infezione. Malattie ed epidemie sembrano accorciare e perfino eliminare distanze e differenze tra le persone, pur separando e isolando l’uno dall’altro.” Quindi a me sembra che se c’è una guerra da combattere è la guerra alla guerra, cioè all’isolamento di ognuno di noi. Ma come farlo? Come restare comunità, come restare coesi? Come non vedere che l’inquinamento sparito, quello da traffico ad esempio, è sostituito da quello di tonnellate di mascherine infette da smaltire? E come rapportarsi alla ricaduta, alle seconde quarantene? E come non chiedersi se la ricerca di soluzioni “definitive” non mascheri altre fughe?
Qui interviene a mio avviso l’idea di “guerra”. La società contemporanea si è liquefatta, siamo diventati tutti consumatori, non più cittadini. Rispetto al cittadino il consumatore ha solo una doglianza personale, da far presente al banco “lost and found”. Così la comunità diviene liquida e individui mobili come alghe spariscono, perdono soggettività, in non-ambienti, come gli odierni ipermercati. I consumi sono tutto, tutto è consumabile. Questo modello disintegra la comunità; i luoghi tradizionali d’incontro sono spariti prima del coronavirus, anche l’aggregazione politica classica era già stata sostituita dal rapporto televisivo con il leader. Immerso in questo isolamento l’uomo liquido incamera messaggi sociali per via telematica, televisiva. La solitudine consumistica dell’individuo contemporaneo non ha più riferimenti fuori da sé, e vive l’isolamento, la quarantena, come una condizione di rimozione. Il suo senso comunitario lo riscopre in qualità di consumatore che cerca negli altri consumatori un alleato a cui unirsi. Ma non per qualcosa, ma contro il nemico. Il nemico che ha chiuso i negozi, allontanato dalla fruizione. Il consumatore che non può consumare è rimosso dalla sua società acquisita, quella del mall, dove la sua identità di individuo-alga è isolatamente condivisa da tutti. In definitiva l’idea di essere ricostruisce il senso di comunità in individui senza comunità, se non quella del consumo. Il consumatore come può vivere senza la certezza del binario del treno, del gate del volo, della disponibilità immediata della merce: come può vivere tempi incerti? I consumatori non sono compatibili con l’incertezza. Ma non si sconfigge l’incertezza dichiarando guerra all’incertezza.
Passare dalla narrazione della guerra alla narrazione di come vivere i tempi dell’incertezza diviene indispensabile. Mi occupo, e mi preoccupo, dell’HIV o della malaria perché la nostra comunità è il mondo, la nostra società è l’umanità. Scendere dal treno di questa globalizzazione monista, quella che distruggeva culture per renderci tutti consumatori degli stessi prodotti, negli stessi ipermercati, è un’urgenza anche per via dell’evidente alleanza con il monismo del virus per via della distruzione di tanti ecosistemi, farlo controvento, cioè nella direzione sbagliata, significherebbe andarsi a sfracellare sul treno medesimo. L’umanità è una e la sua sfida è ritrovare insieme certezze.
La certezza più urgente verrà dal vaccino, ma ci vorrà tempo. Nel frattempo? Nel frattempo abbiamo bisogno di certezze di transito, per fronteggiare questo tempo di incertezze, per tornare a quanto scrive padre Vicini.
Ripensare la comunità in termini mondiali vuol dire capire che il vaccino va cercato per tutti, e insieme, che l’ecosistema, tutti gli ecosistemi, vanno tutelati insieme, difesi insieme, salvaguardati insieme. Con tutte le culture che li rendono vivi. Non è saggio costruire megalopoli in mezzo a foreste pluviali, ci poteranno a contatto con le case del virus, determinando lo spillover, il contagio.
La globalizzazione che ci serve è quella che ci riporta alla certezza che deriva dall’Inter pendenza dei diversi. L’Italia esiste perché Milano non è Shanghai, il Vesuvio non è il K2, e l’Aspromonte non è la Dead Valley. Ognuno con i suoi ambienti e il suo ecosistema costituisce l’unicità dell’Italia, insieme a Dead Valley, K2 e Shanghai, con relativi ambienti ed ecosistemi. La certezza del vaccino non rimuoverà questa verità, ma ci aiuterà a riscoprirne la indispensabilità. Distruggere l’habitat essenziale alle comunità dell’Aspromonte vorrebbe dire distruggere l’habitat che consente l’esistenza di Shanghai. Capire questo ci aiuterà ad aspettare il vaccino. Aiutandone la ricerca.
Ecco allora che Laudato si’ e Documento sulla fratellanza diventano due facce della stessa medaglia e forse questo virus è venuto a dirci che la globalizzazione è pluralista, il monismo è la fine del mondo, come è monista il coronavirus.
Non c’è altro modo per fronteggiare insieme l’incertezza e la pandemia. Non abbiamo bisogno di capri espiatori, immigrati ieri, cinesi o lombardi oggi, untori sempre. No, ciò di cui abbiamo bisogno è un rinnovato impegno etico per la salute dell’uomo e della natura, perché tradire l’una vuol dire tradire l’altra.
La priorità dunque è la ricerca del vaccino e quindi dell’etica della responsabilità, attendendolo. Ma anche la costruzione di un ordine mentale nuovo. I cattolici che in queste ore invocano il dominio della natura l’ordine mentale indispensabile, quello pluralista, in nome del loro monismo antropocentrista. In definitiva direi che il confronto culturale in atto è tra il monismo del virus e il pluralismo della vita, che unisce gli uomini nelle loro diversità e li collega alla natura, con la quale si vive, senza seti di dominio che distruggono il mondo.