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Nuovo clima sull’ambientalismo

Durante il Consiglio Europeo di ottobre 2008, il Primo Ministro italiano, Silvio Berlusconi, ha affermato con un commento decisamente pittoresco che non è di certo il momento di lottare come Don Chisciotte contro i mulini a vento riferendosi al pacchetto climatico della Commissione Europea. Più sorprendente è stata la posizione presa dalla Germania di Angela Merkel che si è schierata con l’Italia nell’opporsi ai provvedimenti chiave del pacchetto della politica europea sul clima avanzando dubbi su eventuali effetti negativi a danno della crescita economica, preoccupazione condivisa con Berlusconi. Il metodo Kyoto per tentare di ridurre le emissioni che sembrano contribuire, in termini reali o potenziali, al riscaldamento globale si focalizza sui mercati manifatturieri che utilizzano il carbonio, sui target e sui regolamenti. Questi provvedimenti richiedono un aumento dei costi che al momento non può essere affrontato con un’economia ed una politica di vecchio stampo, in un contesto in rapido peggioramento e con una turbolenza economica che sta mettendo a dura prova la sopravvivenza dell’euro. Le preoccupazioni espresse sia dalla Merkel che da Berlusconi prospettano una crisi ancor più profonda nel contesto della politica sul clima globale che è ora in fase di definizione.
 
Recenti analisi scientifiche sui livelli di emissione di CO2 dimostrano che nella prima fase operativa di attuazione delle misure del Protocollo di Kyoto la quantità di carbonio emesso per unità del PIL a livello mondiale è aumentata ad un passo più rapido rispetto al decennio passato. Più specificatamente non esiste prova dell’effetto reale sul tasso di decarbonizzazione dell’economia europea derivante dall’applicazione della politica climatica del protocollo di Kyoto. Senza un tasso rapido di decarbonizzazione dell’economia, per raggiungere i target stabiliti dall’UE, (i cosiddetti 20-20-20 target: riduzione del 20% delle emissioni ed aumento del 20% della cosiddetta “energia rinnovabile” entro il 2020), o persino il target ancora più ambizioso di un taglio pari all’80% di CO2 entro il 2050 stabilito legalmente attraverso il primo target legislativo a livello mondiale (British Climate Change Act approvato dalla House of Commons nel novembre del 2008), l’impatto annuale del PIL dovrebbe essere più elevato rispetto al 5-6% che viene attualmente prodotto nel contesto dell’attuale recessione. Le analisi effettuate dal Dott. Keigo Akimoto che lavora presso uno dei principali istituti di ricerca giapponesi, l’Istituto di Ricerca per la Tecnologia Innovativa Terrestre (RITE), indicano che per stabilizzare le emissioni al livello 2005 entro il 2050, senza tener conto di eventuali cambiamenti nell’utilizzo o produzione di energia, è necessaria una riduzione globale del PIL del 74% secondo il BAU[1]. Ciò è evidentemente intollerabile sia da un punto di vista sociale che politico.
 
Allo stesso modo, per raggiungere i target che sono ormai parte integrante della legislazione britannica, sarebbe necessario che la Gran Bretagna raggiungesse il livello di efficienza energetica e di intensità di carbonio della Francia entro sette anni a partire da adesso. Attualmente la Francia è l’economia principale con il minor utilizzo di carbonio grazie all’utilizzo dell’energia nucleare per l’80% della sua produzione totale di energia elettrica. Solo per riallinearsi con la legislazione in vigore entro il 2016, la Gran Bretagna dovrebbe costruire e mettere in funzione circa 30 impianti nucleari a partire da adesso. Dovrebbe poi comunque mantenere un tasso minimo annuale di decarbonizzazione (ovvero di riduzione dell’uso del carbonio per ogni unità di energia utilizzata per produrre un’unità standardizzata di PIL) pari al 4-5%. Non si conosce alcuna società industriale che abbia mai raggiunto i tassi di decarbonizzazione definiti dai target.[2] Pertanto anche questa soluzione è decisamente poco concreta. Sembra quindi che il British Climate Change Act abbia fallito prima ancora di essere applicato e che verrà rivisto dal Parlamento oppure semplicemente messo da parte dai policymakers.
 
Gli effetti dell’implementazione delle politiche climatiche suggeriscono che l’allusione letteraria di Berlusconi era giusta. La politica gestuale applicata al cambiamento climatico con il rischio di costi extra per l’economia è praticabile solo in tempi migliori o quando vi è disponibilità di risparmi, ma non è di certo un’opzione attuabile ora che il mondo è nel mezzo di una delle crisi più grandi dalla Grande Depressione degli anni ’30. Questo contesto ha portato ad intuire cambiamenti drammatici nell’allineamento dei paesi chiave sulla politica climatica nel dicembre del 2008.
 
In Europa questi cambiamenti sono diventati evidenti durante il Consiglio Europeo dell’11-12 dicembre. Interessata ad ottenere l’approvazione del pacchetto europeo sul clima durante la sua presidenza, la Francia si è tagliata fuori dalla discussione critica del piano d’azione climatico della Commissione in seno al Parlamento Europeo favorendo i paesi che avevano minacciato di porre un veto al pacchetto europeo. Uno di questi gruppi era capeggiato dalla Polonia ed era costituito dai paesi europei dell’est che dipendono per una percentuale elevata (più del 90% nel caso della Polonia) dal carbone per produrre energia.
 
Il Primo Ministro Donald Tusk aveva già osservato in seno al Consiglio di ottobre che “se non si può dire alla Francia di chiudere l’industria del nucleare e costruire mulini, allora nessuno può dirlo a noi”. In effetti, i polacchi ed altri stati membri dell’Europa centrale e dell’est hanno dichiarato apertamente che non solo non avrebbero rinunciato alla sicurezza energetica geopolitica che possiedono grazie alle riserve di carbone nel proprio territorio, ma anche che se qualcuno si fosse offerto di pagare per l’utilizzo del gas russo non avrebbero comunque accettato per la ricchezza di risorse del loro territorio. Il motivo dietro a queste affermazioni è diventato più chiaro quando il Primo Ministro Vladimiri Putin ha deciso, di fronte all’orrore ed allo stupore di molti funzionari europei occidentali, di chiudere i rubinetti del gas all’Europa durante la sua ormai annuale tortura degli ucraini e di mettere in pericolo lo status della Russia come fornitore affidabile di gas all’UE. I polacchi ed i paesi dell’est europeo sono stati fermati dal porre un veto al pacchetto europeo rimanendo esenti dall’implementazione del regime di scambio di emissioni che dovrebbe implicare la vendita dei permessi tramite asta.
 
Su quest’argomento, l’inizio del nuovo anno ha portato delle novità. Di fronte ad un futuro incerto il prezzo del carbonio nello schema europeo di scambio di emissioni è sceso e si è stabilizzato a circa 12 euro a tonnellata: molto al di sotto del livello necessario per dare il segnale di un mercato credibile. Ma ancor più significativo è che il prezzo scorporato dal petrolio e la minoranza di coloro che sono in possesso dei permessi UE sul carbonio (non istituti finanziari bensì azionisti della real economy) hanno portato ad un regime di sottocosto. Hanno visto che avrebbero raggiunto i loro target grazie alla recessione ed hanno cercato di ripianificare il budget. Con lo scambio di permessi europei sul carbonio sotto forma di debiti cartolarizzati o derivati; lo scambio di carbonio sembra potenzialmente assumere le sembianze di un mercato sub-prime.
 
Un altro paese ha cambiato la sua posizione facendo altre richieste. Nell’amministrazione Kohl Angela Merkel ricopriva il ruolo di Ministro per l’Ambiente, ma ora in veste di Cancelliere e a causa delle pressioni da parte dell’industria dell’esportazione tedesca ha chiesto l’esclusione delle industrie esposte al rischio della cosiddetta “perdita di carbonio” dai target ovvero la non applicazione del programma europeo sul clima per evitare la competizione sbilanciata con manifatturieri che non vengono toccati da quest’aspetto. Pertanto la Germania, nonostante l’alleanza con l’opposizione rosso-verde, è passata dall’altra parte. Berlusconi ha già sottolineato che qualsiasi proposta deve essere soggetta ad una revisione a seguito del vertice di Copenhagen della Convenzione Quadro dell’ONU sul Cambiamento Climatico (UNFCCC) prevista per settembre 2009. Ha inoltre sottolineato che anche l’industria italiana non dovrà diventare una vittima sacrificale.
 
Quindi, mentre la questione va in stampa, la situazione è tale per cui nelle aree della politica climatica, della risposta commerciale e bancaria alla recessione, le istituzioni UE sono sempre più lasciate al di fuori mentre le nazioni d’Europa portano avanti individualmente i propri interessi con un vigore crescente e a volte spiacevole.
 
Ciò significa che con il fallimento del pacchetto europeo sul clima, ora non c’è alcuna prospettiva di azione per mitigare l’aumento di diossido di carbonio da parte dell’uomo? Paradossalmente la risposta è che la crisi della saggezza convenzionale e l’approccio difettoso che è stato portato avanti negli ultimi 5 anni apre per la prima volta la prospettiva reale di una strada completamente diversa.
 
Il fondamento di quell’approccio si basa innanzitutto sullo studio di quei componenti che portano effettivamente alla riduzione dell’uso di carbonio nelle attività umane. In base al record stabilito su un periodo di 100 anni risulta che si è verificata una modesta decarbonizzazione per unità di PIL e che ci sono stati risultati in termini di efficienza che si traducono in miglioramenti della decarbonizzazione. Per essere conformi ai target di stabilizzazione relativamente bassi (ad esempio un livello di concentrazione pari a 450 ppm) e con un’economia globale crescente, la decarbonizzazione per unità del PIL deve essere accelerata nel periodo a lungo termine tendente al ribasso.
 
E’ poco probabile politiche climatiche focalizzata sui target di riduzione delle emissioni e sulle tempistiche portino ad un ribasso così accelerato. E’ invece possibile che una politica con due obiettivi diversi porti ad un ribasso sotto forma di conseguente indennità aggiuntiva. Il primo obiettivo deve essere il miglioramento dell’efficienza e del margine di profitto delle attività economiche e soprattutto delle industrie che producono e fanno un uso cospicuo di energia. In questo contesto le proposte del Giappone sono all’avanguardia. Il secondo obiettivo dovrebbe essere quello di stimolare l’ingresso dei rifornimenti di energia a basso tenore di carbonio nel mix della produzione di energia. In un mix di politiche una tassa sul basso utilizzo di carbonio potrebbe trovare sbocco. Facilitare entrambi gli obiettivi sarà un impegno sostanziale per arrivare all’innovazione della tecnologia energetica. Le tecnologie per la cattura del carbonio avranno un ruolo altrettanto importante. Tutti questi aspetti sono pratici mentre la discussione di Kyoto sui permessi di emissione negoziabili è teorica. Non vi sono obiettivi concreti che possono essere raggiunti entro il 2020, data arbitraria scelta dall’Europa, ma potrebbero prospettarsi strade concrete entro il 2050 se si porta avanti il lavoro.
 
Quindi il corso d’azione più vantaggioso è quello di seguire un approccio indiretto, simile a quello usato da Lancelot ‘Capability’ Brown, un architetto di giardini britannico del XVIII secolo il cui motto per un paesaggio di successo era che una volta individuato l’obiettivo bisognava tentare un approccio obliquo. [3]
 
Questa strategia è evidentemente sempre più attraente per i leader mondiali in questo periodo di recessione in quanto gli elementi che tentano di utilizzare per riprendersi da questa recessione sono gli stessi che avranno un effetto benefico contingente. Queste sono le cosiddette strategie del “non rimpianto” per affrontare il problema delle emissioni crescenti di carbonio e che verrebbero comunque implementate anche solo con quest’obiettivo, il che è il motivo per cui probabilmente funzioneranno.
 
Come primo passo tutte le principali economie potrebbero utilizzare dei parametri settoriali per arrivare a dei modelli di efficienza nei settori a maggior dispendio energetico accelerando il ciclo di ricambio dell’attrezzatura principale. Questi passi aiutano a ridurre i costi energetici, a migliorare l’efficienza e quindi il margine di profitto delle aziende e sono necessari per renderle forti in questi tempi di recessione.


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