Un anno e mezzo dopo l’elezione popolare diretta del suo segretario, curiosamente ed erroneamente spacciata per “primarie”, il Partito Democratico sta già attraversando la sua prima crisi totale: di leadership, di linea politica, di organizzazione (persino di governo ombra: smantellato!). La successione dinastica di Dario Franceschini, a suo tempo, cooptato da Veltroni per mandare il segnale più forte di una inoppugnabile e inespugnabile fusione fra i Democratici di Sinistra e la Margherita, costituisce, visibilmente, seppur motivatamente, la soluzione temporanea per rimandare un problema che esiste: chi comanda? Ovvero, a quale leader è opportuno affidare la costruzione di un partito che in molte aree del paese non c’è (infatti, non si trovano neppure gli “aderenti”, quindi, non si può fare un congresso decente), la guida di un’opposizione che, governo-ombra incluso, sembra surclassata da Di Pietro, la formulazione di una strategia politica e culturale per un partito che si è troppo spesso definito riformista, ma non ha saputo praticare il riformismo? Dati i suoi precedenti, avere condotto i Democratici di Sinistra al punto più basso della loro storia elettorale, 16,6 per cento nel 2001, Veltroni non era certamente il più adatto a esprimere la leadership di un, per quanto inesistente, partito. E, infatti, sin dal Lingotto del giugno 2007, si dedicò con impegno al compito che preferisce, quello di affabulatore. Ma, in materia, “il principale esponente dello schieramento avversario” vanta esperienze e competenze quasi insuperabili.
Essere leader e esercitare la leadership significa tracciare una via indicando tempi, modi e compagnie con le quali percorrerla. “Correre da soli” era un azzardo, e Veltroni lo ha corso, alla fine, dopo troppi rinvii, pagandone il fio. Non è chiaro che cosa di alternativo Franceschini, certamente corresponsabile, sappia e voglia suggerire. Chiarissimo, invece, che una nuova leadership può scaturire, non da procedure di cooptazione e di promozione, ma dal conflitto fra proposte precisamente delineate che ancora non si sono viste. La proposta principale dovrebbe riguardare la linea strategica da perseguire. Dimettendosi, Veltroni ha dichiarato che lo faceva per salvare il progetto politico del Partito Democratico. Credo, al contrario, che non esista un progetto politico da salvare quanto un progetto da riformulare. Non basta riferirsi al cosiddetto meglio delle culture riformiste del passato: comunista, cattolico-democratica, ambientalista, senza tentare il coinvolgimento vero della cultura socialista, per individuare il progetto politico. E’ sbagliato sostenere che non è né possibile né utile entrare nel solco delle socialdemocrazie europee perché le loro esperienze sarebbero in crisi se non addirittura superate. Il socialismo europeo appare tuttora, anche perché caratterizzato dalla non incoerente e non configgente varietà, il più attrezzato luogo di ricerca e di espressione di una cultura autenticamente riformista. Se il Partito Democratico si chiama fuori dal PSE non potrà ottenere quelle idee e attuare quelle pratiche riformiste che, nient’affatto superate e, anzi, diventate patrimonio comune dei riformisti europei, persino la crisi in corso sta rivalutando.
La debolezza del Partito Democratico viene spesso attribuita quasi esclusivamente alla mancanza di identità. Lasciando da parte le logore affermazioni sul morire o non democristiani e sul niente da vergognarsi dei comunisti, a mio modo di vedere, l’identità non potrà in nessun modo essere costruita, alimentata e vantata se non intorno ad una grande cultura politica riformista che, per essere tale, deve fondarsi su principi laici e socialisti. Quand’anche il Partito Democratico non volesse tentare questa operazione, al tempo stesso di recupero e di rilancio, è indispensabile che venga svolta un’attività intensa e sostenuta di riflessione culturale (soltanto parzialmente praticabile dalle Fondazioni e sicuramente, non ancora?, capace di sbocchi a livello del Partito). Non ho colto nelle prime dichiarazioni e nei primi comportamenti di Franceschini nessuna urgenza in questa decisiva materia che non saranno certamente le primarie a tutti i livelli a sbrogliare. Forse, anche se non sarà sufficiente, bisognerebbe ripensare collettivamente il davvero pessimo “Manifesto dei Valori”.
Un Partito è fatto di leadership e di linea politica, di identità di valori, ma, in assenza di un’organizzazione, né le una né le altre vanno da nessuna parte. La sottovalutazione dell’importanza dell´impianto organizzativo dei Partito Democratico, della sua effettiva presenza sul territorio, della sua proiezione nella società civile mi è parsa monumentale. Il pensiero non poteva non riandare alla grande operazione di ricostruzione e di rilancio del Parti Socialiste condotta da François Mitterrand a cavallo degli anni sessanta/settanta (manifesto programmatico compreso: Changer la vie). Un partito che nasceva anche dalla spinta dei clubs (Circoli?) , in qualche modo federato, collegato ad un sindacato, capace di sfruttare al meglio la personalizzazione della politica poteva costituire un esempio anche per il PD. Nulla di tutto questo (solo per ignoranza oppure per decisione consapevole?): le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, con le ricorrenti tentazioni di dare vita ad un non meglio precisato Partito del Nord, come se il Nord, da Torino a Venezia, fosse un’entità politico-territoriale indifferenziata. Poiché non è stata fatta nessuna riflessione sul modello organizzativo, l’esito attuale è costituito semplicemente dal prolungamento inerziale sotto altro termine delle organizzazioni esistenti, per lo più fatiscenti e, talvolta, simili a bunker.
Si va preparando una “conferenza programmatica” che rischia di essere ancora una volta una passerella per dirigenti e qualche tecnico, mentre urge una conferenza organizzativa con proposte che dovrebbero anche rimescolare le carte (e le carriere) dei dirigenti e dare vita ad un ricambio non necessariamente di natura generazionale. L’organizzazione di un partito non è ovviamente soltanto un problema di regole e strutture né, tantomeno, di solo organigramma. Riguarda il modo con il quale il partito si apre alla società che lo circonda, ne recepisce le domande, le trasforma, al tempo stesso, facendo e insegnando politica, magari dando corpo all’aggettivo “democratico” nella formazione delle decisioni e nella elezione dei dirigenti . Per questo, il personale che ricoprirà le cariche di partito può essere persino più importante dei rappresentanti nelle istituzioni. Ecco, il reggente Franceschini farà opera meritoria se riuscirà a convincere il corpo dei dirigenti intermedi che la priorità è costituita dalle attività sul territorio e nella società. Nulla di tutto quanto ho indicato è facile. Infatti, sono in gioco la difficile esistenza del Partito Democratico e le sue prospettive di diventare, finora non lo è assolutamente stato, un attore rilevante nel sistema politico italiano. Se no, meglio ricominciare da capo, da un’altra parte. Anche con una leadership che non venga dai soliti noti.