Il Global Committee for The Rule of Law “Marco Pannella” (Gcrl) aveva accolto con grande soddisfazione la decisione favorevole del Tar al ricorso presentato da alcuni avvocati membri della Fondazione Einaudi per l’accesso ai documenti riguardanti le deliberazioni del Comitato tecnico scientifico e le misure da prendere nell’emergenza coronavirus. Un certo numero di quei documenti sono stati resi disponibili alla Fondazione Einaudi da parte del governo a seguito della deliberazione del Tar, e hanno avuto notevole impatto mediatico e politico.
Quella della Fondazione Einaudi — con la quale il Gcrl collabora da tempo — è stato un’iniziativa assai importante per affermare concretamente quel diritto alla conoscenza che rappresenta la fondamentale missione del Gcrl. Si è trattato di un primo significativo passo, e nessuno poteva pensare diversamente, di un lungo e difficile percorso.
Lo dimostra quanto accaduto negli ultimi giorni sull’esistenza di un “rapporto segreto” al Governo del 12 febbraio, quando ancora si sottovalutava enormemente la gravità della pandemia che avrebbe colpito l’Italia ancor prima di molti altri Paesi europei e nel mondo. Vi sono tutti i motivi per ritenere assai improvvida e grave sotto il profilo della corretta informazione del pubblico, la decisione del governo di tenere segreto il rapporto, perdendo settimane preziose per allertare la cittadinanza e disporre efficaci misure di prevenzione.
La questione riguarda, evidentemente, diversi altri Paesi: specialmente quelli dove sottovalutazione del rischio, censura di Stato, disinformazione e speculazione politica hanno contribuito, anche se non originato direttamente come ha fatto la Repubblica popolare cinese, l’esplosione della pandemia a livello globale.
Disinformazione, propaganda e spregiudicato utilizzo politico della pandemia hanno accomunato alcuni Paesi totalitari, in particolare Iran e Cina. Il regime di Teheran ha dovuto fare i conti con una disastrosa gestione della pandemia. Il ministero della Salute Iraniano ha dichiarato che nel Paese “ogni 7 minuti” muore una persona per coronavirus. I timori del regime teocratico di un impatto negativo sulle elezioni e sulla partecipazione popolare alle celebrazioni per il quarantennale della rivoluzione khomeinista hanno indotto il regime a occultare una situazione gravissima sin dall’inizio. Gli iraniani sono stati lasciati indifesi dal virus, salvo poi – una volta che il disastro era sotto gli occhi di tutti – sostenere che l’epidemia era una scusa inventata dai nemici dell’Iran per scoraggiare le persone dal voto, e a incolpare gli Stati Uniti di “attacco biologico”.
Ma la rivolta contro il regime ha continuato a diffondersi anche durante la pandemia. Sono numerosi i manifestanti e le voci che denunciano come sin dall’inizio il governo sapesse che a Qom erano già esplosi i casi di Covid-19. Da Qom sono rimasti attivi per diversi mesi i voli con le province cinesi più colpite, operati da una società, Mahan Air, nota per i legami con i Pasdaran, i Guardiani della rivoluzione e sanzionata dagli Stati Uniti. Recentemente il segretario di Stato americano Mike Pompeo, nell’annunciare il blacklisting di altre personalità iraniane per terrorismo, ha spiegato: “Le designazioni ricordano che le persone o le società che forniscono servizi per Mahan Air rischiano sanzioni statunitensi”. Un monito che anche il governo italiano dovrebbe tener ben presente in un momento che prelude — il 20 settembre prossimo — alla riattivazione di tutte le sanzioni statunitensi all’Iran.
Certamente ancora più grave l’atteggiamento della Cina. Le responsabilità del regime comunista nell’aver nascosto la pandemia violando una miriade di trattati e impegni internazionali sono emerse chiarissime dalle incongruenze di una narrativa imposta dal presidente a vita Xi Jinping e divulgata ossessivamente dalla nomenclatura. Neppure l’offensiva di pubbliche relazioni precipitosamente rivolta all’Europa con le visite del ministro degli Esteri Wang Yi e quelle successive già programmate ha potuto far recedere le richieste di serie spiegazioni, di una collaborazione per la lotta contro la pandemia sinora negata da Pechino, e le aspettative di risarcimento.
È la cronologia degli eventi a inchiodare Pechino: la prima persona infettata nell’Hubei viene registrata il 17 novembre 2019; l’autorevole rivista scientifica Lancet riferisce del caso il 1° dicembre; il medico Li Wenliang, che tenta di lanciare l’allarme, viene arrestato e minacciato dalla polizia il 30 dicembre. E solo l’11 marzo Pechino lascia che l’Organizzazione mondiale della sanità dichiari la pandemia. Ma ancora una volta in grave ritardo a causa delle pressioni sul direttore generale. Da questo scenario non può che emergerne la piena responsabilità cinese per aver deliberatamente ostacolato qualsiasi forma di collaborazione scientifica nell’individuare le radici del virus.
Si tratta di pagine delle storia che stiamo vivendo che esigono completa trasparenza, verità, e la caduta di ogni conveniente segreto o eccessiva riservatezza nella gestione della cosa pubblica.