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Così Dibba insegue (ma non acchiappa) il fantasma di Draghi. E resta isolato

di battista

Draghi sì, no, forse. L’intervento di Super-Mario al meeting di Rimini del 19 agosto fa ancora discutere. Di più: infuriare. È in casa del Movimento Cinque Stelle che si alza un roboante j’accuse contro l’ex numero uno della Bce.

Parla, anzi scrive Alessandro Di Battista, leader pasdaran del Movimento che da qualche mese, scontento del patto rossogiallo, si è dato alla professione del reporter. Su Tpi (The Post Internazionale) verga una dura invettiva per smontare e ridicolizzare il discorso di Draghi alla kermesse di Comunione e Liberazione.

A Dibba non va proprio giù il “partito di Draghi” fotografato dai sondaggi. Cioè quel fronte trasversale che un po’ si riflette nel gradimento record dell’ex direttore di Bankitalia e un po’ nello scroscio di applausi bipartisan seguiti al suo intervento a Rimini, anche fra i Cinque Stelle.

Ci sono anche loro, i suoi colleghi di partito, fra “i derivati” di Draghi. Così li chiama Di Battista nella sua giaculatoria sul “nuovo idolo dell’establishment politico-finanziario”.

“Draghi non ha detto nulla di rilevante eppure, commentatori, editorialisti e politici hanno descritto il suo intervento come il discorso del secolo, pari, forse, solo all’I have a dream di Martin Luther King”, esordisce il cronista pentastellato.

Segue una lunga confessione dei peccati commessi dal super-banchiere, già da direttore generale del Tesoro negli anni ‘90, quando lo Stato sottoscrisse “una valanga di titoli tossici”. Poi un re-cap della repentina (e, va da sé, colpevole) ascesa di Draghi nel gotha della finanza mondiale, da Goldman Sachs a Morgan Stanley e JPMorgan.

Infine la lista di proscrizione. I “derivati” di Draghi, a sentire Di Battista, sono ovunque. Un assedio. “Draghi è come il Tav, le grandi opere inutili, l’asservimento a Washington o il finanziamento pubblico a Radio Radicale: riesce a mettere d’accordo Renzi e Salvini”. “Galvanizza gli Elkann, i De Benedetti ed i Benetton, che unisce Sallusti e Scalfari, Forza Italia ed il Pd, che tranquillizza Confindustria e tutta l’élite del capitalismo finanziario europeo”.

Di Battista dimentica di elencare, fra i tanti che “si spellano le mani” per Draghi, i suoi amici del Movimento che hanno riconosciuto nel discorso al Meeting un’utile road map per la ripresa del Paese, senza scadere nel gossip quirinalizio o in affrettati pronostici per Palazzo Chigi. Li cita con un po’ di stizza, ma solo indirettamente, quando dice che Draghi piace anche “in quei partiti che dovrebbero essere a lui antitetici”.

Sul fronte Draghi, in effetti, emerge tutta la solitudine dell’arringatore grillino. Perché più di un (ex?) compagno di viaggio ha emesso un verdetto diverso, se non opposto dal suo sulle parole dell’ex presidente della Bce.

Su tutti l’ex capo del Movimento e ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Suo un incontro con Draghi di fine giugno, reso noto dal suo staff, e definito dal ministro “positivo e proficuo”. Ancora Di Maio, all’indomani del discorso al Meeting, applaudiva al banchiere dicendo di aver “molto apprezzato” le sue parole sui giovani.

Un gesto che da più parti è stato letto non come vuota formalità ma come segno di un cambio di passo verso una linea “governista” e dialogante, anche con l’“establishment” a lungo indicato come Belzebù dai Cinque Stelle. Peraltro non è rimasto isolato.

Salvo chi oggi ha un piede dentro e uno fuori dal Movimento, nessuno monta più le barricate contro il banchiere, anche nella vecchia guardia.

Non è chiaro quanti “derivati di Draghi” ci siano in giro, oggi. Certo di “derivati di Dibba” se ne vedono sempre meno.



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