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Briatore, Benigni e il negazionismo del Covid

Di Chiara Buoncristiani

Un papà in un pigiama a strisce racconta al figlio, Giosuè, che stanno partecipando a un avventurosissimo gioco a premi ambientato in uno speciale parco divertimenti. Ma tutti sappiamo che in verità sono in un lager.

Il papà è Guido, interpretato da Roberto Benigni. Nel 1997 il mondo si è commosso davanti a La vita è bella, film che parla dell’eroica capacità di un padre di proteggere il proprio bambino dall’orrore dei campi di sterminio e delle camere a gas. È la costruzione di un’illusione, di una favola vitale, a lenire l’incontro della mente infantile con una realtà troppo traumatica da poter essere accettata senza prima essere stata digerita e trasformata in qualcosa di tollerabile.

Che cosa differenzia il protagonista di questo film pluripremiato dai negazionisti del Covid, cioè da personaggi come Flavio Briatore, Bolsonaro, Johnson, Trump? In entrambi i casi possiamo parlare di uno stesso umano compito: quello di avere a che fare con una verità che può rivelarsi “troppo” dura. In entrambi i casi siamo di fronte alla possibilità (o all’assenza di possibilità) per la mente di costruire rappresentazioni (emotive e cognitive) rispetto a un incontro che, per la sua intensità o disumanità, rischierebbe di provocare un crollo.

Eppure qualche differenza c’è. Nel caso di Briatore e dei negazionisti del Covid che tanto hanno fatto indignare una parte dell’opinione pubblica, seducendone invece un’altra parte, si tratta di una negazione. La negazione, come ci ha insegnato Freud, è una difesa dell’apparato psichico. Ma attenzione, in questo frangente, quello che viene negato è solo apparentemente l’epidemia e le sue conseguenze. A ben vedere la vera negazione riguarda i sentimenti provocati dall’irruzione del Covid. Non solo la percezione della impotenza di fronte ai limiti, primo fra tutti quello dei nostri corpi mortali. Ma il senso di depressione e paura che questo suscita soprattutto in chi fino a quel momento si era sentito invulnerabile. E allora si fa prima a negare la realtà, a fuggire maniacalmente, nascondendo i fantasmi sotto il tappeto e continuando a festeggiare il Ferragosto. Per Darwin questo tentativo di adattamento a una situazione ambientale nuova sarebbe stato perdente.

Diversa, anche se apparentemente simile, è la questione de “La vita è bella”. Qui il protagonista in realtà non si nega la verità, semmai la trasforma. Non scappa dalla propria vulnerabilità, ma la usa per attivare l’istinto di protezione nei confronti di Giosuè. Guido vive fino in fondo il dolore e la verità del lager. E lo usa per creare una storia che tenga in vita Giosué: “Se riesci a stare alle regole del gioco e rimani nascosto nella baracca, vinciamo”, dice Guido al figlio. Vuole evitare di farlo catturare dai tedeschi e evitare che lo portino nelle camere a gas. E ci riesce. La verità resta intollerabile, ma il tentativo di adattamento garantisce la sopravvivenza.

Detto in termini psicoanalitici, la differenza è tra l’uso dell’illusione come mezzo per lavorare ed elaborare una verità traumatica e la negazione della realtà come fuga maniacale. Non stupisce che politici di ogni Paese abbiano usato messaggi di questo tipo come forma di antidepressivo popolare buono a sedurre l’elettorato. Una fuga resa necessaria dall’impossibilità di sostare sulla propria vulnerabilità.


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