Haftar ha già risposto alle mosse della Turchia in Libia, tutte pesantemente in sostegno al governo di Al Serraj, con varie mosse: il 27 aprile scorso, Haftar ha dichiarato del tutto nullo l’”Accordo Politico Libico”, scritto nel dicembre 2015 e poi ripresentato da Ghassan Salamé, l’inviato Onu per la Libia, nel 2017.
Una mossa che gli stessi alleati di Haftar nell’Est libico hanno interpretato negativamente. Perché li ha lasciati privi di ogni immagine e potere internazionale, per quanto limitato.
Altro timore di Haftar, ora che, però, non ha più la netta superiorità militare sul campo, è che i suoi alleati, che già non hanno apprezzato la sua mossa, sull’”Accordo Politico Libico”, ovvero quelli della House of Representatives, il Parlamento autonomo di Tobruk guidato da Aguilah Saleh, possano entrare in trattative dirette con Tripoli e perfino con la Turchia.
Haftar, inoltre, teme la perdita di sostegno da parte dei suoi sostenitori internazionali, che ormai non sperano più in una riunificazione della Libia sotto la direzione politico-militare dello Lna di Bengasi.
Questo potrebbe significare, in prima battuta, un sostegno maggiore della Russia per le forze di Haftar, meno forte di prima e quindi non più in grado di disobbedire o, perfino, di trattare seriamente, con gli stessi emissari della Federazione Russa.
Questa sarebbe l’unica, a tutt’oggi, vera alternativa alla presenza di Ankara in Libia e alla possibile riunificazione del Paese sotto la spinta militare e politica di Al Serraj, certo riconosciuto dall’Onu ma anche punto di riferimento di tutta un’area di islamismo militante, “radicale” e assolutista. Grazie all’Onu, naturalmente.
Punto non secondario della nuova penetrazione della Russia in Libia, anche per contrastare quella turca, è il nuovo ruolo di Aguila Saleh, l’uomo di Tobruk, che ha esplicitamente parlato del sostegno di Mosca per un attacco a Tripoli, mentre Abu Dhabi, altro player non secondario nella Libia d’oggi, sostiene ancora Haftar nel dichiarare decaduto e invalido il vecchio accordo mediato da Ghassam Salamé.
Altra possibilità, nel nesso tra Russia e Turchia in Siria, potrebbe essere quello di innescare un processo di trattative per la Libia di “tipo Astana”, tale da escludere ogni altro attore esterno in Libia, ma con trattative bilaterali sufficientemente efficaci per evitare l’escalation della tensione tra Ankara e Mosca, come in Siria, e tali anche da escludere ogni altro referente esterno delle forze libiche presenti in campo oggi, salvo, appunto, Turchia e Russia.
A questo si aggiunga che, dopo le molte e recenti scoperte di depositi di idrocarburi in tutto l’Est del Mediterraneo, invece di rafforzare la cooperazione regionale, ciò ha portato alla creazione di due poli politico-energetico-militari opposti: da una parte, l’asse Grecia-Cipro greca-Israele, con l’Egitto e, dall’altra, la sola Turchia.
Per il primo asse di alleati, il referente esterno, almeno per ora, è la sola Francia.
Per la Turchia, il “convitato di pietra”, sempre per ora, potrebbe essere perfino la Russia.
Dipende anche dagli accordi Ankara-Mosca pendenti in Libia, ovviamente.
Gli Usa, ormai esterni alla Siria, non hanno postazioni credibili nel Mediterraneo dell’Est, salvo quelle in territorio italiano, mentre Mosca ha in mano la Siria e può operare molto facilmente nel Mediterraneo orientale.
Cipro ha siglato un accordo sulle sue acque territoriali con l’Egitto nel 2003 e poi con il Libano nel 2007, accordi posti immediatamente in discussione, dalla Turchia, presso l’Onu.
Altro tema importante, la Turchia era interessata inizialmente al progetto della Arab Gas Pipeline, che avrebbe portato il gas egiziano di Zohr, estratto dall’Eni, con ramificazioni in Giordania, Libano e Siria, anche con ulteriori settori sottomarini e con una deviazione verso Israele e poi verso l’Ue, un progetto che avrebbe unito il gas turco ai suoi potenziali clienti Eu.
Negli anni ’10 del XXI secolo, però, le esplorazioni e le scoperte aumentarono rapidamente, facendo prevedere una veloce saturazione dei consumi interni e, quindi, una possibilità politica di vendere all’estero le eccedenze, il che instaurava un clima di forte rivalità tra i Paesi dell’Est del Mediterraneo.
Altro elemento di trasformazione, fu anche la sconsiderata politica delle “primavere arabe”, che ha destabilizzato, ma senza frutto alcuno salvo che per il jihad, proprio quei Paesi arabi che avrebbero potuto ricostruire una collaborazione energetica.
Fu proprio la Turchia a sostenere immediatamente la rivolta dei Fratelli Musulmani, all’origine anche del partito di Erdogan Akp, sia in Egitto e in Tunisia, oltre che in Giordania.
Alla fine del circo delle “primavere arabe”, rimasero due sole e concrete possibilità di cooperazione energetica regionale: il nesso tra Turchia e Israele e le trattative a Cipro del 2014.
Cipro, in effetti, avrebbe potuto esportare direttamente il suo gas verso l’Ue con una pipeline via Grecia e Turchia, alla quale avrebbe potuto collegarsi anche il gas israeliano.
Il potenziale accordo finisce prima di iniziare, nel 2017.
Ora, dove andava comunque il gas israeliano? La ipotesi più razionale era quella di una pipeline via Libano e Siria verso la Turchia, una linea che, però, non era politicamente accettabile dalle parti.
L’altra via era quella di passare attraverso le acque territoriali di Cipro, una via che sarebbe inevitabilmente passata per la Zona Economica Esclusiva turco-cipriota, ma questo non piaceva certo a Israele, che si sarebbe trovato impelagato nelle eterne questioni tra le due aree di Cipro.
Arrivò a questo punto la scoperta dell’area gasiera Aphrodite, nel dicembre 2011.
Un modo concreto di legare Cipro a Israele.
La Grecia, poi, elabora a questo punto una nuova linea, la EastMed, che passa dall’isola di parte greca di Creta e il territorio metropolitano greco, escludendo quindi del tutto la Turchia.
L’East Mediterranean Gas Forum, nel gennaio 2019, vide poi la partecipazione di Italia, che però fa ormai quella che i giuristi chiamano la “parte del convenuto”, o anche del fesso, poi Cipro, Israele, Grecia, Egitto, Giordania e con la partecipazione dell’Autorità Nazionale Palestinese.
Ovviamente, queste operazioni sono state viste da Ankara come eminentemente antiturche.
Quindi, il regime dell’Akp ha applicato la “Blue Homeland Strategy”, precedentemente elaborata dalla Marina di Ankara, tesa a difendere, sempre e comunque, gli interessi turchi in mare aperto. Come se fossero territorio della madrepatria.
In secondo luogo, e qui ritorniamo alla Libia, la Turchia ha siglato un accordo con il governo libico di Al Serraj, il 27 novembre 2019.
L’accordo, che ridisegna tutta la linea di confine marittimo della Turchia a ovest, serve soprattutto a bloccare lo sviluppo della linea del gas naturale EastMed.
Blocca inoltre le richieste di sovranità greca su alcune sue isole, il che sostiene non solo le pretese turche, ma anche quelle libiche rispetto alla base continentale sottomarina delle loro aree marittime.
Inoltre, l’estensione turca e libica verso Kastellorizo e il mare greco sostiene anche i diritti definiti dalla piattaforma continentale dell’Egitto verso la Grecia e Cipro, con il criterio, da sempre sostenuto da Ankara, che le isole di un “mare chiuso” come quello Mediterraneo non hanno, in linea di massima, delle acque territoriali definite, come altrove sempre accade, dal criterio puramente geografico della “linea media”.
Solo dopo l’accettazione da parte libico-tripolina della linea di delimitazione marittima proposta dalla Turchia proprio verso Tripoli, è arrivata anche l’approvazione parlamentare turca alla dislocazione di forze armate nel territorio del Gna di Al Serraj a Tripoli.
Ecco quindi che si è creata l’interdipendenza tra questione libica e gli equilibri non nel semplice Maghreb, ma in tutto il Medio Oriente.
La Grecia ha subito espulso l’ambasciatore libico del Gna, invitando poi Khalifa Haftar a “dare una lezione” a Tripoli. D’altra parte, gli Emirati Arabi Uniti, già sostenitori di EastMed e quindi interessati a bloccare la presenza turca in tutto il Medio Oriente, si sono mossi in correlazione con Grecia e Israele.
La linea turco-libica della loro nuova Eez, da notare, passa appena sotto l’area greca di Creta.
Ma ci sono altri ulteriori sub-conflitti nel Mediterraneo orientale: la sovrapposizione dei depositi sottomarini libanesi con quelli israeliani, per esempio, mentre Israele e Cipro hanno ancora delle dispute sui confini del campo Aphrodite che confina, ancora, con l’area gasiera israeliana Yishai, ma con ulteriori dispute dei singoli Paesi rispetto anche alle compagnie estrattive.
Ma Erdogan opera a vasto spettro, soprattutto là dove può permettersi di sostenere le sue operazioni in Medio Oriente, ovvero nel Maghreb.
Ankara, proprio il 25 dicembre 2019, ha mandato una missione di altro livello in Tunisia, per sostenere un aiuto economico che implica l’utilizzo dell’isola di Djerba per passaggi di materiale e uomini verso Tripoli, ma si prevede, come negli accordi del gennaio 8 del 2020, un possibile accordo anche con Mosca, per un passaggio delle operazioni russe in Libia dalle forze di Haftar verso i soli paramilitari del gruppo Wagner.
Peraltro, Ankara ha inviato fino a oggi almeno 2500 militanti dell’”Isis”, ovvero del sedicente califfato islamico jihadista, via Tunisia (e quindi Djerba) in Libia, e forse anche la “sezione” somala dell’Isis potrebbe presto trasferirsi, sempre via l’intelligence turca, verso la Tripolitania.
Sono somali addestrati da Doha, che sarebbero già 3800 e stazionano già in Turchia, per poi essere trasferiti in Libia-Tripoli al più presto possibile.
Ameno risultato per la parte libica, quella di Tripoli, la sola “riconosciuta” da quei fessi dell’Onu.
Putin ha anche sostenuto, in quella occasione, un cessate il fuoco; ed è ovvio, l’interesse di Mosca verso la Libia è molto più tenue rispetto a quello per la Siria, e la Federazione Russa non vuole, poi, creare l’occasione di una serie di operazioni energetiche della Turchia che bloccherebbero il passaggio del gas russo verso l’Ue.
D’altra parte, il Gna di Tripoli è sostenuto dalla sola Turchia, mentre il “fronte” di Haftar, che pure ha dimostrato di non poter certo riunificare la Libia, è ancora il riferimento di Egitto, Russia, Francia, ma anche gli Emirati Arabi Uniti, poi altri attori non-statuali arabi e, sempre dietro le quinte, l’Arabia Saudita.
Insieme alla Turchia oggi c’è solo il Qatar, che gli italiani continuano, con lo stile degli accattoni, a incensare per i loro possibili investimenti nel nostro Paese, senza immaginare che questi denari hanno un forte corrispettivo energetico e strategico.
Il premier italiano Conte, lo ricordiamo, non ha comunque firmato la dichiarazione antiturca del Cairo, erede eterno dell’otto settembre antropologico dei nostri governi repubblicani, inimico a Dio e alli inimici sua, ma ha discusso, non sappiamo cosa, con Erdogan il successivo gennaio 13, 2020, ad Ankara, ma il 21 dello stesso mese l’Italia ha negato di aver trattato con la Turchia per lo sfruttamento congiunto delle risorse petrolifere libiche, ma anche chiedendo alla Turchia, come in un film di Walt Disney, di “iniziare le trattative con tutte le parti coinvolte, soprattutto per le nuove zone economiche esclusive”.
Urge rilettura attenta del principale testo del Machiavelli.
Ma gli accordi militari tra la Turchia e il regime di Al-Serraj, che nascono ufficialmente il 4 luglio 2020, stipulano esplicitamente che il Gna di Al Serraj è il solo “garante” degli interessi turchi in tutta la Libia.
Inoltre, il governo di Tripoli ha ufficialmente permesso ad Ankara di stabilire proprie basi militari, non necessariamente in collaborazione con le forze di Tripoli, solo sul territorio del Gna.
Un vantaggio legale dei turchi sulla popolazione indigena, inoltre, ancora un forte privilegio per Ankara, infine la definizione della immunità diplomatica per i jihadisti provenienti dall’estero e per tutti i trasferimenti di armi dalla Turchia o da zone “amiche”, un permesso che si estende alle armi e alle munizioni anche internazionalmente proibite dagli accordi Onu.
Sul piano strettamente economico, per quel che se ne sa, la Turchia pensa ad una compensazione a Tripoli per i macchinari persi e le infrastrutture distrutte, poi a 1,2 miliardi di dollari per il ripiano dei debiti del Gna tripolino, infine a una lettera di credito per un altro miliardo di dollani destinato ai futuri acquisti.
Inoltre, il governo di Al Serraj sta discutendo se, e soprattutto come, depositare almeno 4 miliardi di dollari in alcune banche turche.
E chi paga il sostegno turco ad Al Serraj? In gran parte, è ovvio, il sostegno proviene direttamente da Tripoli, ma è probabile che la stessa Turchia si autofinanzi, ma soprattutto con un solido sostegno da parte di Doha.
Il Qatar ha già pagato molti politici a Tripoli e alcuni gruppi jihadisti anti-Haftar, ma ha anche pagato interamente il materiale militare attuale di Tripoli, spedito sempre e solo via Turchia.
Dal gennaio 2020, Ankara ha comunque “esportato” almeno 15.000 mercenari siriani, inclusi i bambini-soldato, verso la Tripolitania, con altri soldati-jihadisti provenienti dallo Yemen.
Il Gna ha anche abolito il suo diritto autonomo di verificare, anche formalmente, le navi e gli aerei turchi; e permette a Ankara di costituire delle basi che sono addirittura fuori dalla giurisdizione formale del Gna di Tripoli.
Insomma, la Libia tripolina è ritornata ad essere un wilayet, una parte periferica dell’Impero Ottomano, ma stavolta agli ordini della sola Turchia.
D’altra parte, per la sola Francia, almeno formalmente, il sostegno a Haftar era giustificato dalla volontà dell’uomo di Bengasi di “eliminare i gruppi jihadisti”, gruppi che, peraltro, anche Parigi aveva sostenuto durante la guerra contro le forze (legittime) di Gheddafi.
Nel frattempo, ci informano due fonti turche, sarà ricostruita e ampliata la grande base aerea di Al-Watiyah, presenti le sole forze turche, mentre il porto di Misurata, nelle cui aree sussiste ancora il grande ospedale da campo delle FF.AA. italiane, dimenticate come al solito, ospiterà una vasta base navale turca, oltre ad essere concesso tutto il porto, anche per le sue parti unicamente commerciali, per 99 anni al governo di Ankara.
Ma i turchi parlano anche con Malta.
Si ricorderà che La Valletta si è ritirata fin dall’inizio dalla operazione Eu detta “IriniI”, già nel maggio scorso, un segnale apprezzatissimo da Ankara, che vede la sia pur inutile operazione Eu come una azione nettamente avversaria.
Il ministro della Difesa italiano Guerini è, anche lui, stato a Tripoli.
Gli argomenti da trattare, per l’Italia, erano lo sminamento, la trattativa sui territori, la salute in Libia, poi finalmente il ritorno programmato delle aziende italiane in Tripolitania e la riattivazione della produzione petrolifera, che peraltro quattro giorni fa Haftar ha riaperto ufficialmente.
Ci mancavano solo la Nutella e i trenini della vecchia, gloriosa Rivarossi.
Guerini, inoltre, ha posto a disposizione dei posti per l’addestramento dei cadetti della FF.AA. tripoline, che saranno comunque agli ordini dei turchi, oltre al sostegno sanitario per le forze del Gna e, infine, ha offerto anche lo spostamento dell’ospedale italiano a Misurata in “altra locazione più adatta”, casomai dovesse dare disturbo al porto in mani turche.
Ci manca solo un festival del cinema italo-libico e un corso di cucina per tutto il governo di Tripoli.
I turchi, comunque, hanno chiesto ufficialmente che l’Italia abbandoni completamente l’aeroporto di Musurata.
Già fatto, naturalmente.
Inoltre, Ankara vuole la piena inclusione dell’Algeria, del Qatar, della Tunisia, nel processo di pace in Libia, mossa che sarebbe stata ovvia per Roma ma, si sa, per pensare ci vuole il cervello.
Intanto, Al Serraj, forse per ampliare la propria base di sostegno internazionale dopo gli accordi leonini con la Turchia, propone addirittura elezioni in tutta la Libia entro Marzo e annuncia il cessate il fuoco, certo per coprire il riarmo turco, con la richiesta che tutte le “milizie straniere” (anche la Turchia?) dovrebbero lasciare, antro il tempo delle elezioni, la Libia.
Le trattative con gli Usa, in Marocco e in Tunisia, sono a buon punto, ma c’è poco da crederci, visto che le milizie di Misurata e Zintan sono del tutto contrarie all’accordo, mediato da Aguila Saleh, che non ha, machiavellicamente, “le armi proprie”.