Skip to main content

Fine del globalismo europeo

La banca di investimenti Goldman Sachs prevede che entro il 2050 la Cina avrà la maggiore economia del mondo, seguita da Stati Uniti ed India. Il secondo livello potrà essere occupato da Russia, Brasile e Giappone, e un terzo girone includerà Germania, Gran Bretagna e le ex-potenze economiche europee. Proprio come le città-Stato del Rinascimento furono sopravanzate e marginalizzate dalle monarchie nazionali nordeuropee nel XVI-XVII secolo, così gli Stati-nazione più grandi del passato (Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia e Giappone) saranno messi in ombra dai titani del XXI e XXII secolo. Il Vecchio continente, che rappresentava il 22% della popolazione mondiale nel 1945 e il 12% nel 2000, potrebbe ridursi al 6% nel 2050. Dato che il Prodotto interno lordo è basato su produttività e popolazione in età lavorativa, anche se gli europei diverranno più ricchi, la quota europea dell’economia globale potrebbe scendere dall’attuale 22% – comparabile dunque con quella degli Usa – a solo il 12% nel 2050.
 
Nelle moderne società industriali, la tecnologia e la politica si combinano in ciò che Edward Luttwak ha definito “geoeconomia”. La scala tecnologico-economica premia i grandi gruppi che operano su mercati ampi e unificati. Come non si stancano di sottolineare gli alfieri della globalizzazione, le economie di scala tecnologiche e commerciali sono meglio realizzate a livello globale; ma le economie di scala psicologiche e politiche vengono meglio concretizzate sul piano nazionale. In teoria, sia le economie di scala tecniche sia quelle politiche potrebbero essere realizzate da blocchi multinazionali, ma in pratica questo è un esito improbabile.
 
Già fin dagli anni Quaranta del XIX secolo, osservatori inglesi e francesi predissero che il futuro sarebbe stato dominato da due giganti statali, America e Russia. L’imperialismo dell’era industriale, dagli anni Settanta del XIX secolo fino alla Seconda guerra mondiale, fu – tra le altre cose – un tentativo di Stati-nazione di medie dimensioni come Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Giappone di creare sfere di influenza economica paragonabili per dimensioni a quelle che esistevano all’interno dei confini degli Stati Uniti e della Russia zarista (e più tardi dell’Urss). Dopo il 1945, soprattutto su insistenza degli Usa, la comunità internazionale ha messo fuori legge le vecchie forme dell’imperialismo. Ma se anche la storia del XX secolo ha preso una direzione diversa, c’è da dubitare che nel lungo periodo i vecchi imperi multinazionali (tenuti insieme dalla repressione e, come nel caso degli imperi britannico e giapponese, separati dall’oceano) avrebbero potuto reggere la competizione con gli Stati continentali.
 
Le ex potenze imperiali euro-occidentali hanno cercato di correre ai ripari, mettendo in comune una parte delle loro sovranità nazionali all’interno dell’Unione europea: ma gli Stati europei preservano i loro spazi nazionali in politica estera, per cui non riescono ad avere una sola voce in conflitti come quello dei Balcani, dell’Iraq e della Libia. Nel contempo la crisi finanziaria greca ha dimostrato che la Ue manca di istanze economiche centralizzatrici, come una banca centrale con capacità di credito in casi di emergenza – ciò che sarebbe necessario per farla funzionare come un’unione monetaria e commerciale efficiente. Ma a causa dell’opposizione dei popoli ad un’ulteriore integrazione politica, è improbabile che l’Europa riesca laddove gli ex-imperi europei hanno fallito, ovvero nella costruzione di un equivalente politico dei giganti statali continentali.
 
Le economie di scala psicologiche favoriscono gli Stati nazionali con un forte senso di solidarietà tra i loro abitanti, un sentimento tale da spingerli ad accettare di combattere guerre, a pagare tasse e a sostenere politiche ridistributive per il bene comune. La Cina, con la sua stragrande maggioranza di etnia Han, ha un senso di appartenenza e di solidarietà nazionale ben più elevato di Stati multinazionali di minore estensione come il Canada e il Belgio, che rischiano di frantumarsi secondo linee etnico-culturali come è accaduto alla Jugoslavia e alla Cecoslovacchia. Ne segue che in futuro, come nel passato, i vantaggi economici di scala verranno fatti propri in primo luogo da entità che avranno a disposizione enormi mercati interni liberi racchiusi entro confini politici classici. L’attenzione alla sicurezza nazionale e alla distribuzione interna del potere sarà sempre di ostacolo all’integrazione transnazionale dei mercati. In un mondo post-imperiale e post-dinastico, le grandi potenze di successo saranno gli Stati nazionali di enorme stazza.
 
L’idea della postmodernità o seconda modernità è particolarmente cara agli strateghi di nazioni europee che devono trascendere e mettere in comune la loro sovranità se vogliono competere con Stati giganteschi come Stati Uniti e Cina. Sfortunatamente, il cosmopolitismo non si limita ad essere una fede un po’ pittoresca e ingenua, ma sostanzialmente innocua, delle élites globali. Confondere il dovere con l’essere porta ad un’infinità di errori politici. In un mondo in cui gli Stati nazionali sono destinati a mantenere la loro sovranità e in cui il nazionalismo economico continua a dominare, le politiche commerciali e finanziarie che presuppongono un mondo senza confini non hanno alcun senso. Non è dunque corretto dire, come spesso si fa, che i problemi globali devono essere risolti da estese cooperazioni sovranazionali. Certo, le rivalità distruttive e a somma zero sono una minaccia a un mondo pacifico e prospero. Su questo internazionalisti liberali e globalisti liberali concordano. Ma molti degli obiettivi mondialisti possono essere conseguiti da un internazionalismo liberale illuminato, senza sacrificare quindi lo Stato-nazione democratico, l’organizzazione in cui ha preso corpo negli ultimi tre secoli gran parte del progresso sociale ed economico dell’umanità. Non nascerà in un futuro prevedibile il governo mondiale o un vero mercato globale. Ma un internazionalismo liberale illuminato potrà permetterci di avere i benefici di entrambi, evitandone i costi.
 
Tratto da “Against cosmopolitanism” (Breakthrough Journal)
Traduzione di Marco Andrea Ciaccia


×

Iscriviti alla newsletter