La rivolta in Brasile è allo stesso tempo figlia del benessere e della povertà. A crederlo è lo scrittore e giornalista freelance Maurizio Stefanini, esperto di America Latina. Scrive per diverse testate tra cui Limes, Il Foglio e Libero.
In una conversazione con Formiche.net spiega chi sono e cosa rivendicano i manifestanti per le strade brasiliane.
Come definirebbe le proteste in Brasile?
Innanzitutto complesse, come la società dove si svolgono.
Chi protesta per le strade brasiliane?
Ci sono tre componenti principali. Una componente che potremmo definire di “girotondini” (ceti medi e medio alti) che portano avanti un movimento di protesta contro la corruzione dilagante già da alcuni anni; il movimento per il trasporto libero (la rivolta è nata ufficialmente per l’aumento del costo del bus, ma andava avanti da tempo, ndr) composto da studenti e giovani in generale, che è invece un filone riconducibile a quello dei pirati tedeschi o degli indignados spagnoli. Non dei grillini, perché non sono strutturati politicamente come loro. E poi c’è una terza componente, quella di chi ha subito gli sgomberi forzati del governo nelle operazioni per “ripulire” le favelas prima dei mondiali. Ciò non li ha solo privati di una casa, ma li ha allontanati dal centro, costringendoli a usare i trasporti, con tutto ciò che ne consegue, e a privarsi delle possibilità commerciali offerte dalla prossimità di turisti e benestanti. Se a questo si somma che in vista dei mondiali è stato vietato di commerciare oggetti che non abbiano il logo ufficiale della Fifa, è facile capire quanto questa protesta sia trasversale.
Cosa rivendicano i manifestanti?
Ogni strato sociale che le ho elencato, rivendica cose differenti. Il filo conduttore è però che un po’ tutti si sentono tagliati fuori dai meccanismi decisionali, dal potere.
Ci sono analogie con la protesta turca?
Analogie vere e proprie no, anche perché parliamo di società, ordinamenti politici e governi molto differenti. È vero però che, come accade spesso in questi casi, prevale un effetto “contagio”, che serve per scatenare proteste che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra.
Che cosa ha fatto scattare allora le proteste in Brasile?
Credo che il mondiale di calcio sia stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il Brasile accumula malcontento sociale già da qualche anno, ma per chi vive in Occidente è difficile rendersene conto. Poi a un certo punto le situazioni esplodono e ci si chiede il perché. Allora va detto che in Brasile almeno la metà dei ministri della presidente Dilma Rousseff si è dovuta dimettere nel tempo per scandali connessi a casi di corruzione legati all’organizzazione del mondiale di calcio del prossimo anno. Bisogna poi aggiungere che come in molti paesi in rapida crescita, il Brasile ha sì un sistema democratico, ma società e modalità di governo ancora poco giuste. Alla fine la situazione è esplosa.
Secondo lei la Rousseff riuscirà a governare l’aumento delle proteste?
Impossibile fare previsioni a lungo termine, ma al momento direi di sì. Innanzitutto perché, a differenza di Erdogan o di altri governanti, nessuno ne ha chiesto le dimissioni. Il problema per i brasiliani non è lei, o almeno non ancora. E ad ogni modo dubito che, anche se la situazione degenerasse, autorizzerebbe l’uso sistematico della violenza e delle armi. Ma più che una certezza è un auspicio, perché purtroppo in Sudamerica ci sono stati diversi casi in cui le cose non sono andate come ci si aspettava, come alle Olimpiadi di Messico ’68 con la strage di piazza delle Tre Culture. Sembra che lo sport non porti molta fortuna al Sudamerica.