La formula “salvo intese”, oramai divenuta di rito, mette in luce due elementi:
A) il Consiglio dei ministri delibera senza decidere, lasciando agli uffici il compito di dare sostanza e praticabilità a quanto, nel frattempo, è già stato consumato in una catena di conferenze stampa e dichiarazioni personali, il tutto, però, celando con la definizione di “tecniche” il fatto che le intese da raggiungersi non sono mai formalità prive di sostanza, ma, semmai, sostanza reale destinata a riempire la forma.
B) con questa formula, che da disperata eccezione è divenuta accomodante consuetudine, si mira al vero risultato, ovvero salvare le intese fra le forze di governo, spostando altrove e rinviando nel tempo il confronto fra idee e interessi diversi. E se poi non ci si riesce? Se in sede di firma il Colle muove dei rilievi? Non si torna in Consiglio, perché il decreto inesistente è già stato varato, sicché si rimedia aprendo la caccia a supposte manine. Peccato che il decreto, per sua natura legittimo solo se necessario e urgente, diventa una manata alla Costituzione, restando nel limbo del varato e non emanato.
Tolto ciò, che non è puntiglio per cultori di codicilli, ma elefantiaco dimenarsi nella cristalleria istituzionale, resta quel che della sostanza è annunciabile, prima che sia sostanzialmente salvata dalle intese che salvino l’intesa. E la sostanza, purtroppo, non è diversa dalle puntate precedenti: il deficit cresce, puntando ad uno stratosferico 160% di debito sul prodotto interno lordo, senza che si metta mano a investimenti che portino almeno la speranza di vedere crescere la produzione più di quanto cresca il debito e il suo costo. Si paga per non decidere, si scuce per non fare, si sfonda per non affondare.
Quando scadrà il divieto di licenziare i posti di lavoro non saranno meno a rischio, ma più soldi saranno stati spesi senza riuscire o a salvarli o a crearne di nuovi altrove. Quando avremo assunto altre migliaia d’insegnanti, senza uno straccio di ragionamento numerico sul rapporto fra docenti e discenti, rendendo permanenti spese ingenti per far fronte a bisogni contingenti, quando si potrà giocare a bancoscontro con i tavoli a rotelle, la scuola resterà quella che è, sempre che non riesca a peggiorare.
Non si tratta di essere favorevoli o contrari (impossibile) alla crescita del debito in un momento come questo, è che far crescere la spesa corrente a debito è un suicidio annunciato. E con la realtà non c’è modo di trovare intese nel non intendersi.
In ultimo: la produzione industriale ha ripreso a crescere, in paragone ai mesi precedenti, come anche le esportazioni, evviva; ma restano negative su base annua; significa che l’Italia produttiva da segni di vitalità, ma non solo il punto di partenza è ancora lontano, ma il governo concentra la spesa non su quanti provano a tornare a correre, che il cielo li benedica, ma su quanti devono essere sovvenzionati per restare fermi. Quegli indici, insomma, non segnalano i positivi effetti delle scelte di governo, ma l’enormità dell’errore che si continua a commettere. Ora Ferragosto. Per parlare di futuro, idee e investimenti ci si rivede a ottobre. Speriamo con qualche serietà in più.