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Il giornalismo professato e l’eredità (difficile) di Sergio Zavoli

Di Mario Morcellini e Christian Ruggiero

L’invasione della modernità delinea almeno due tratti fondamentali della mutazione non solo antropologica del mestiere giornalistico, sospeso tra avanzamenti e ripiegamenti da parte di quanti esercitano la professione. Il primo rivela una versatilità sempre maggiore, legata da un lato all’aggiornamento rispetto all’avanzare tumultuoso delle tecnologie e dall’altro all’adeguamento ai dettami della flessibilità lavorativa. Il secondo riguarda invece la difficoltà di mantenere il proprio punto di vista e un orizzonte cognitivo rispetto ai fenomeni che il giornalista è chiamato non solo a riportare ma soprattutto a interpretare.

Sergio Zavoli ci mancherà perché è stato in grado, in oltre settant’anni di carriera, a rappresentare entrambi questi tratti del mestiere che orgogliosamente ha professato, anticipando le tendenze positive e resistendo a quelle negative che attraversavano il giornalismo. Ricordato per i suoi capolavori di inchiesta televisiva a partire da La notte della Repubblica, ha esordito come radiocronista ed è stato uno dei pionieri del giornalismo sportivo; ineludibile il riferimento al suo Processo alla tappa. Nella sua opera letteraria più famosa, Il socialista di Dio, ha fermato su carta le contraddizioni di un solido ancoraggio religioso che si compenetra con un sapiente richiamo alla secolarizzazione.

Uomini come lui hanno la rara capacità di frequentare, quando non di abitare, le istituzioni lasciandole più ricche. Consideriamo uno dei lasciti alla Commissione parlamentare di vigilanza i tre seminari promossi tra il 2009 e 2010 raccolti in altrettanti volumi della Biblioteca del Senato. Zavoli così spiega la sua iniziativa, nata “allo scopo di raccogliere – con l’aiuto di studiosi della comunicazione, figure significative dello show system italiano, manager della tv pubblica e privata, sociologi, uomini di Chiesa, e naturalmente dei membri della Commissione – […] un corpo di autorevoli riflessioni sullo stato della televisione in Italia, con una particolare attenzione al ruolo del servizio pubblico, e sulle attese della comunità nazionale in un passaggio delicato, dal punto di vista normativo e industriale, di un sistema che deve ormai misurarsi con le profonde innovazioni del linguaggio, delle tecnologie, dei fattori distributivi del prodotto televisivo”.

Scorrendo anche solo i nomi dei partecipanti a quei seminari ci si rende conto quanto coraggiosamente Zavoli abbia poi portato a compimento la promessa di quelle poche righe introduttive, lasciandoci un’avanzata discussione sull’identità del Servizio pubblico. Il tratto più interessante è stato il coinvolgimento degli studi accademici di comunicazione che rappresentavano la spina dorsale degli interventi. Si è trattato di uno sforzo riuscito di colmare il divario tra Parlamento e società: un esperimento di modernità inedito e purtroppo mai più replicato.

Giornalisti della statura di Zavoli hanno la capacità di offrire un contributo (auto)critico allo studio della loro stessa professione, che vada al di là non solo della propria esperienza personale ma anche dello stesso stato di cose che hanno avanti. Raccolta la sfida di scrivere una introduzione al volume dedicato al “Neogiornalismo”, nel 2011, aveva certo dinanzi agli occhi il declino del giornalismo di carta stampata e televisivo e il rampante successo del giornalismo online e social, ma la dimensione del fenomeno non poteva essere pienamente riconosciuta se non da uno sguardo lungimirante come il suo. Ecco allora emergere gli interrogativi sulla “promesse mancate” della comunicazione, nel caveat circa la necessità di “capire fino a che punto, o entro quali limiti, i sistemi della comunicazione possano rappresentare davvero, nelle forme che ci sono state consegnate da un pensiero liberale, anche il segno positivo dell’attuale stadio della modernità”. Ma anche l’intuizione anti-apocalittica che lo porta a ricercare la soluzione nelle risorse di quelli che restano i principali stakeholder di qualsiasi servizio di informazione o comunicazione, quegli spettatori che “conservano una certa autonomia nel decidere il proprio comportamento dinanzi al video, rivelandosi capaci di fare riferimento a un sistema tecnologico che presenta modalità e codici di utilizzazione sempre più sofisticati” e conducono i media digitale a essere “sempre meno mass media e sempre più people media”.

Ecco, infine, gli ultimi insegnamenti che ci lascia Sergio Zavoli, i più difficili da seguire: abitare un sistema dell’informazione dentro uno scenario in perpetuo mutamento, dal quale “non può essere esente la dimensione etica, la tutela della cosa pubblica, la valorizzazione della politica”. Nel quale chi s’incarichi di professare il giornalismo nel segno che ci ha lasciato Zavoli, perché la professione si ponga quale strumento garante della qualità della politica – e più in generale della società – e non complice dei suoi scadimenti, sia pronto a “battersi per le regole”.

Un’eredità difficile da raccogliere per generazioni impegnate a costruire un complesso equilibrio tra le tensioni che abbiamo citato in apertura. Ma che la figura, e la memoria di Sergio Zavoli che siamo chiamati a coltivare come comunità che professa e insegna il giornalismo, rimette in gioco. Contribuendo, con un’ultima citazione alla sua Prefazione a Neogiornalismo, a “ricostruire, attraverso una ritrovata consapevolezza, gli archetipi di una civiltà logorata dal disincanto per tutto ciò che è pubblico e incline ai compromessi per tutto ciò che è privato”.

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