“Conosciamo i limiti dell’esperimento che stiamo realizzando, le distanze iniziali e quelle che residuano, ma il riformismo si può spendere solo dentro questa esperienza di governo, non fuori”. Stefano Ceccanti, deputato del Partito democratico e componente della Commissione Affari costituzionali non è affatto convinto che l’alleanza con il Movimento 5 Stelle voglia dire la fine dell’animo riformista del Partito democratico, anzi. “Se ci avessero detto, dopo le elezioni del 2018, che da lì a un anno l’Italia avrebbe mandato Gentiloni all’Unione europea, ne avremo concluso che il riformismo sarebbe stato marginalizzato?”, si chiede in una conversazione con Formiche.net. Non si può sapere ora come si evolverà lo scenario politico, ma la pre-condizione di ogni riformismo, ossia l’ancoraggio all’Ue, al momento è ben salda.
Il prof. Panarari su Formiche.net ha sostenuto che il Pd non va solo verso un’alleanza organica con i 5 Stelle, ma che questo significherà “una cesura netta con la storia riformista dei dem”. È davvero così?
A me sembra che il quadro politico sia molto fluido. Esiste una maggioranza di governo che è ritenuta da tutti i suoi componenti senza alternative, anche a causa della posizione antisistema, anti-Ue della Lega. Una coalizione che fa fatica a riprodursi sul piano locale e regionale perché lì la linea divisoria sulla Ue non ha particolare rilievo. È difficile dire a priori come evolverà il quadro.
Ci si può davvero alleare con il Movimento 5 Stelle, un partito dall’anima populista, senza esserne contaminati?
In questo momento, soprattutto per l’iniziativa politica di Renzi dello scorso agosto, prima della scissione, abbiamo tutti realizzato un’alleanza di governo coi 5 Stelle che ha i suoi problemi, ma che ha evitato al Paese un’uscita dalla Ue che avrebbe potuto verificarsi in piena pandemia. Vedremo come questo esperimento avanzerà ma intanto anche il recente vertice europeo che ha scommesso sull’Italia e che ha quindi dimostrato che l’anno scorso la scelta è stata giusta. Del resto il governo era nato dopo il punto di svolta del voto del M5S alla nuova presidente della Commissione Ue.
Quella delle regionali è una prova di fusione con i 5 Stelle, tutto sembra andare in questa direzione. Una alternativa è possibile e se sì, quale potrebbe essere?
A dir la verità il tentativo di alleanza, per ragioni oggettive, si è rivelato impraticabile, tranne che in Liguria. Le ragioni oggettive sono appunto legate alla linea divisoria sulla Ue che rende possibile la maggioranza a livello nazionale e che incide poco sui livelli inferiori. Dopo di che non è anomalo il fatto che se alcune forze governano nazionalmente insieme provino anche a espandere ad altri livelli quello schema. Per il momento però non sembra aver funzionato se non come eccezione.
Il Partito democratico si è assunto la responsabilità di formare il governo Conte II dopo la crisi innescata da Salvini, ma sembra ora voler puntare sempre di più sulla figura di Conte come garante di questa alleanza. A cosa ha dovuto rinunciare per farlo?
Il Pd ha fatto un governo ed ha accettato la prosecuzione della guida di Conte, fatto che costituiva una delle condizioni necessarie per quella svolta, necessaria all’Italia, che ha tenuto fermo il nostro ancoraggio alla Ue. Anche perché in Parlamento, dove si vota la fiducia al governo, il partito di maggioranza relativa è il M5S. Dopo di che, come in ogni coalizione, il Pd ha il suo segretario, i suoi ministri, il suo gruppo dirigente. Qualora in un altro contesto il Pd si trovasse come primo partito in una coalizione avrebbe il diritto dovere di rivendicarne la guida, come accade in tutte le democrazie.
La cultura riformista del Pd annovera figure come Prodi e Ciampi, sono ormai state messe da parte?
Non mi pare che la cultura riformista sia stata messa da parte anche perché la pre-condizione di ogni riformismo è l’ancoraggio all’Unione europea. Entrammo nell’Euro sotto la regia di Prodi e Ciampi e ci siamo rimasti perché abbiamo tenuto Salvini all’opposizione. Non è che il tasso di riformismo si misuri sull’assenza di coalizioni efficaci, in uno splendido isolamento in cui ci si compiace di proposte radical riformiste mentre altri governano: questa sarebbe una vocazione minoritaria, non maggioritaria.
Insomma, nessuna morte del riformismo sull’altare della realpolitik?
Siamo in un processo aperto, non ci possiamo consentire forme di riformismo giacobino, che oltre tutto sappiamo essere un ossimoro. Conosciamo anche i limiti dell’esperimento che stiamo realizzando, le distanze iniziali e quelle che residuano, ma il riformismo si può spendere solo dentro questa esperienza di governo, non fuori. Ma se ci avessero detto, dopo le elezioni del 2018, che da lì a un anno l’Italia avrebbe mandato Gentiloni all’Unione europea, ne avremmo concluso che il riformismo sarebbe stato marginalizzato?