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Perché l’attacco all’Armenia ci riguarda. L’analisi di Vittorio Robiati Bendaud

Gli scontri tra Armenia e Azerbaigian, hanno riacceso un conflitto esplosivo nella regione del Nagorno Karaback – o, come è noto nell’antica e contemporanea denominazione armena, Artsakh -, provocando decine di morti e di feriti. Tra rimpalli di responsabilità su chi effettivamente abbia dato avvio alle ostilità, la situazione in quel fazzoletto di terra è sempre più incandescente. Occorre però, per avere una visione complessiva delle reali motivazioni dello scontro, fare diversi passi indietro nella storia e osservare la situazione da un angolo di prospettiva che affonda radici lontane.

Per farlo, Formiche.net ha chiesto un parere a Vittorio Robiati Bendaud, autore de “La stella e la Mezzaluna, breve storia degli ebrei nei domini dell’Islam” (Guerini & Associati), pratico delle questioni mediorientali, oltre che studioso del genocidio armeno.

Premette Bendaud: “La conoscenza della Storia e la coscienza mi fanno schierare senza se e senza ma a favore degli armeni. Le ore che stiamo vivendo sono tragiche e gravide, Dio non voglia, di conseguenze terribili, ed è scandalosa la disinformazione in proposito, specie in Occidente, nel mondo libero”. Continua l’esperto: “Baku oggi esporta risorse minerarie ed energetiche a cui siamo tutti legati, compresa l’Italia – analizza Bendaud. E fa investimenti milionari con tutta Europa e in varie altre parti del mondo. D’altro canto, la Turchia, facendo parte della Nato, è estremamente difficile da gestire anche da parte degli americani. Nel 2019 partecipai personalmente a un convegno di conservatori con Bolton, all’epoca segretario alla difesa della Casa Bianca, e altri funzionari eminenti degli Stati Uniti. Alcuni relatori israeliani e americani fecero presente ai funzionari governativi che occorreva con urgenza rivedere l’alleanza perché la Turchia di Erdogan è inaffidabile e pericolosa, nonché legata a triplo filo con i Fratelli Musulmani, un’organizzazione terroristica raffinata, pianificatrice e ovunque diffusa, con addentellati nella politica sia europea (Italia inclusa) sia statunitense. Questo venne detto a tutela della causa curda (sostenuta da Israele e vergognosamente abbandonata da molte Nazioni libere) e della causa armena (sostenuta da varie persone appartenenti a minoranze religiose che intervennero al convegno, inclusi molti cristiani di Oriente come greci, copti, maroniti e assiri). Ci venne però purtroppo risposto che, pur comprendendo le ragioni degli uni e degli altri, il principale partner della Casa Bianca, e dunque della Nato, in Medio Oriente, assieme a Israele e a certi Stati Arabi, resta la Turchia”.

C’è quindi da dire che, al momento, in questo senso, “Trump è coerente con la linea tenuta dalle presidenze precedenti, inclusa quella di Obama che, in seguito al golpe, rinnovò immediatamente la sua fiducia e la sua collaborazione con l’attuale premier turco: le basi militari in Turchia, assieme a molti altri fattori, hanno vincolato fino ad oggi la politica della Nato. Questo vale ancora di più per le timide e prive di mordente politiche europee, vincolate ad accordi economici e industriali; alla questione migratoria, con gli sconsiderati finanziamenti servili dell’Europa al regime liberticida e teocratico di Erdogan; alla presenza in Germania – l’unica economia che tiri in Europa – di milioni di turchi; come pure all’antico amore tra la Germania e i vari governi turchi, incluso quello genocidario dei Giovani Turchi. Ma anche il nostro Paese ha accordi economici e strategici, energetici e industriali, sia con la Turchia sia con l’Azerbaigian, con tutto quello che ne consegue. Basti pensare al rimpatrio, tramite Turchia, di Silvia Romano… e chi ha orecchie per intendere intenda”.

Nello scacchiere di questo conflitto, a detta di Bendaud, gioca un ruolo da protagonista “Erdogan, che sta cercando ogni occasione di conflitto nel Mediterraneo con la Grecia, con Cipro e nel Caucaso nella parte più sensibile nel Nagorno-Karaback”. Territori questi ultimi in cui permangono “vestigia millenarie della cultura armena”. Simboli, tradizioni, storia. Il fine ultimo del conflitto per parte turca, secondo Robiati Bendaud, sarebbe quello di “cercare di mettere in difficoltà Stati economicamente fragili come la Grecia e l’Armenia. Stati che, a livello simbolico, culturale e religioso, sono fumo negli occhi per la Turchia e l’Azerbaigian”. Non solo. In questo modo, il presidente turco “vaglia le reazioni dell’Occidente: Russia, Stati Uniti ed Europa. Nella misura in cui l’Occidente avrà reazioni tiepide, non difendendo con tutte le sue forze Armenia e Grecia, la Turchia accrescerà e farà valere il proprio crescente potere, facendo i suoi interessi indisturbata”.

C’è un altro punto di contatto fra Azerbaigian e Turchia che non va sottovalutato. “A Baku c’è una dittatura a conduzione familiare – spiega Bendaud – una forma di totalitarismo che perdura da decenni. Come detto, il partner dell’Azerbaigian è la Turchia: Stato diversamente totalitario, nel quale si torturano i giornalisti, si finanziano i Fratelli Musulmani, forzatamente si trasformano le chiese in moschee (e non solo Santa Sofia, con le momentanee reazioni più che tiepide dell’Occidente e dei cristiani occidentali) e si perseguitano le minoranze (ad esempio gli Aleviti)”.

Quando venne perpetrato il genocidio armeno la morsa si strinse “sia da parte dei turchi (dell’attuale Turchia) – continua – ma anche da parte dell’attuale regione dell’Azerbaigian, popolata da popolazioni turche sciite”. In più, aggiunge Bendaud, al termine della Prima guerra mondiale “i primi che tradirono la causa armena, dopo il genocidio, furono le potenze occidentali. Gli armeni sono stati quindi anche vittime dei rapporti che Atatürk, erede scaltro della secolare diplomazia ottomana, strinse con Unione Sovietica, Inghilterra, Francia, Stati Uniti e persino Italia”. Quando l’Urss crollò, “gli armeni dell’area del Nagorno Karaback – ricorda – temendo pogrom che avevano già patito in precedenza anche in aree limitrofe, portarono avanti una secessione rispetto alla maggioranza dell’Azerbaigian per quanto riguardava l’area dell’Artsakh ove dimorano da secoli e secoli. Questo provocò una guerra con migliaia di morti, ingenerando l’attuale situazione. Al posto loro avrei fatto esattamente la stessa cosa. E, a voler ben vedere, ci si ritrova in una situazione per certi versi simile a quella patita da Israele, ove la cattiva coscienza e l’ignavia dell’Occidente rifulgono poderose”. Negli ultimi decenni sia la Turchia sia l’Azerbaigian hanno perpetrato sotto diversa specie “l’opera genocidaria per cancellare e così negare le millenarie presenze armene in quei territori, distruggendo cimiteri secolari, abbattendo chiese e altre ‘amenità’”.

In questo quadro geopolitico, già particolarmente complesso ed esplosivo, molto delicato è il ruolo di Israele, su cui Bendaud chiarisce alcuni punti chiave. “È estremamente doloroso e urtante doversi trovare a constare che, per tragica realpolitik, gli armeni intrattengono rapporti (inevitabili, anche perché vi dimorano alcune centinaia di migliaia di loro correligionari) con l’Iran che vorrebbe distruggere Israele, mentre Israele, per difendersi dall’Iran, abbia rapporti strategico-commerciali-energetici (che spesso si declinano anche nel commercio di armi) con l’Azerbaigian a detrimento degli armeni. Un paradosso simile ce l’hanno i russi, che sostengono l’Armenia, ma che vendono armi sia agli armeni sia agli azeri. Questa è una scandalosa e amarissima verità”.

In chiosa, il monito di Bendaud che è da leggersi come una luce puntata sulla memoria del genocidio armeno. “Come il ricordo della Shoah ha una valenza politica fondamentale di ‘vaccino’ nei riguardi dei totalitarismi rispetto ai loro fautori di destra e di sinistra, allo stesso modo occorre capire come sia vitale per il futuro delle nostre sempre più fragili democrazie il recupero della memoria del genocidio armeno per decifrare il presente e i suoi attori, anche al fine di tutelare popolazioni già vittime. E, le comunità ebraiche, dovrebbero essere le prime a dare voce al ricordo di questo genocidio. Lamentabilmente non si è fatto abbastanza ed è urgente ora più che mai. La stessa cosa riguarda però anche i cristiani di Occidente, che dovrebbero ergersi con ritrovato vigore e dignità a tutela dei loro fratelli armeni oggi sotto attacco, senza tergiversazione alcuna”.

“Il cristianesimo occidentale – chiude – ha già taciuto troppo nel corso della Shoah, perdendo un kairos unico per la propria coscienza, con effetti disastrosi. Erdogan non è troppo diverso, come non sono troppo diverse le cedevolezze dell’Occidente: un film purtroppo già visto. Occorre che si alzi con fermezza la voce, a ogni costo, difendendo gli armeni”.



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