Il presidente del Consiglio presidenziale libico, Fayez al Serraj, si è incontrato oggi e ieri con il presidente del Consiglio consultivo di Stato, Khaled Al-Mishri, a Istanbul. Formalmente insieme per discutere questioni legate alla Banca centrale, i due sono in Turchia per una riunione molto politica convocata dalla presidenza di Recep Tayyp Erdogan. Quello che ne esce è un comunicato congiunto in cui entrambi “hanno discusso della necessità di aderire al cessate il fuoco e di tutte le operazioni di combattimento in tutti i territori libici, e di smilitarizzare le regioni di Sirte e Jufrah, con la ripresa della produzione ed esportazione di petrolio, sotto la supervisione della National Oil Corporation. E anche per completare il passo positivo per creare fiducia rivedendo i conti della Banca Centrale della Libia sia a Tripoli che a Bayda”.
È un linguaggio diretto su cui però vanno spiegati dei retroscena. Sostanzialmente entrambe le due figure della Tripolitania, parti costituenti del sistema di stabilizzazione progetto dall’Onu con gli accordi Lpa del 2015, accettano lo stato dei fatti prodottosi dopo che il vice di Serraj, Ahmed Maiteeg, ha pigiato sull’acceleratore negoziale e stretto un’intesa personalmente con Ankara, Mosca e con il capo dei miliziani ribelli dell’Est, Khalifa Haftar. Nell’accordo che Maiteeg ha chiuso nei giorni scorsi si presuppongono infatti le stesse intenzioni inserite nel comunicato congiunto uscito da Istanbul. Di fatto il deal di Maiteeg è già operativo, con la Noc – la compagnia petrolifera di Stato – che ha deciso ieri di revocare la forza maggiore dal porto di Zueitina e da tutti i campi appartenenti all’azienda dopo aver riscontrato un notevole miglioramento della situazione della sicurezza.
Sebbene l’allineamento del premier Serraj e del presidente del Consiglio di Stato Mishri sull’intesa firmata dal vicepremier libico sembrerebbe scontato, tale non è. Se infatti Serraj – a cui Erdogan con la convocazione in Turchia ha espresso tutto il dissapore per non essere stato avvisato anticipatamente dell’intenzione di dimettersi – è sempre stato in contatto col suo vice, Mishri nei giorni scorsi aveva evocato stranezze come “una commissione di inchiesta” per verificare la trasparenza dell’azione diplomatica di Maiteeg. Il passo indietro e il comunicato congiunto hanno dunque una evidente ragione: Ankara – che è il principale partner del governo onusiano di Tripoli, avendone sostenuto la difesa proattiva contro Haftar – sostiene col suo peso politico l’intesa raggiunta da Maiteeg. Per evitare ulteriori polemiche intra-libiche, dunque, arriva a forzare il comunicato congiunto da Istanbul.
Il motivo è che la Turchia, come detto, è partner nell’intesa insieme alla Russia – che sostiene il capo miliziano Haftar e come i turchi in Tripolitania ha intenzione di restare in Cirenaica – e all’Egitto. Ieri il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, ha mostrato la linea. Ha accettato in pratica la strada avviata sul petrolio, perché sa che i proventi verranno redistribuiti verso la regione orientale, che è l’interesse economico-commerciale e geopolitico del Cairo. Ha poi chiosato retoricamente su Sirte e Jufra, chiedendo il rispetto di quella che chiama “linea rossa da difendere”. Attenzione qui: le due città, situate su una direttrice che idealmente divide Tripolitania e Cirenaica, sono un centro di delicatezza perché su quelle si gioca parte del confronto interno a Tripoli. Sono infatti ancora in mano agli haftariani, e mentre si cerca di congelare la situazione per raggiungere in futuro intese negoziali, tra le forze del Gna c’è chi vorrebbe spingere per la riconquista. Ecco che viene l’attacco degli egiziani alle milizie (e più in generale alle posizioni più dure) della Fratellanza musulmana, che sono le stesse che hanno osteggiato l’accordo di Maiteeg – accusato di aver accettato troppi compromessi con Haftar.
Ora i grandi stakeholder libici – Russi compresi, che garantiscono il ritiro degli assetti pro-Haftar – stanno invece benedicendo il realismo politico del vicepremier attraverso pressioni sugli attori interni e prese di posizione chiare. Sisi oggi ha ricevuto sia Haftar sia Aguila Saleh, il presidente del parlamento HoR auto-isolatosi a Tobruk (assise che gode del riconoscimento internazionale perché l’ultima eletta dal popolo). Al primo ha chiesto di abbandonare le ambizioni militariste – che ancora l’altro sponsor, gli Emirati Arabi, non ha mollato del tutto, sebbene siano anche gli Stati Uniti a cercare di tenere frenato Abu Dhabi sul realismo dell’impossibilità di compiere la presa del Paese con la guerra e sulla necessità di riavviare il petrolio. Al secondo ha chiuso parzialmente la porta aperta quando qualche mese fa lanciò – dal Cairo – il piano negoziale, accusandolo (senza fanfare) di aver cercato di trovare un’intesa sottobanco con Mishri e con i Fratelli per spartirsi future rendite, posizioni e interessi. Missione che poteva diventare già operativa dal 5 ottobre, quando a Ginevra si inizierà a parlare in sede Onu del dopo Serraj. Un futuro su cui adesso grava il peso politico e diplomatico dell’intesa trovata da Maiteeg.