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Berlusconi e il puzzle (da riordinare) tra giustizia e politica. L’opinione di Reina

La vicenda Palamara, le recenti e incredibili rivelazioni sul verdetto di condanna di Silvio Berlusconi al processo Agrama, che gli causò la decadenza da senatore a Palazzo Madama, il pontificare sulla questione di ex magistrati, a difesa sempre e comunque della propria “casta”, il tombale silenzio di altri, i discutibili comportamenti di una parte politica ben nota, l’arroganza di una informazione senza scrupoli, prona al potere dei padroni a difesa sempre della loro “casta” alimentano l’attuale scenario politico-istituzionale, che prevede ancora turbolenze e polemiche accese. Sarebbe auspicabile (lo si chiede da anni) una onesta opera di verità e rasserenamento che riordini i vari pezzi di un puzzle stravolto, partendo dalla cosiddetta tangentopoli.

Dovrebbe essere doveroso, se non indispensabile, sapere perché certa magistratura usò tanta virulenza nei confronti dei partiti politici al governo di quel tempo. Solo così sarà possibile riprendere un cammino contrassegnato da correttezza politica, istituzionale, e di rispetto reciproco. Sì, perché il caso Berlusconi, emerso in queste settimane, è tutto figlio di quegli anni violenti. Troppi elementi ritornano alla mente, per capire che la cosiddetta “mani pulite”, organizzata e diretta dall’esterno degli ambienti giudiziari milanesi, non fu attività di sana giustizia, ma un furibondo marchingegno per distruggere gli equilibri esistenti, con l’intento di crearne nuovi. Cosa che poi accadde puntualmente: la via giudiziaria al potere.

Un “grande vecchio” in parallelo si incaricò di azionare la cassa di risonanza, poderosa organizzazione mediatica, per persuadere la pubblica opinione a considerare indispensabili i cambiamenti legislativi in corso: fine dell’immunità parlamentare secondo l’art. 68 della Costituzione. I più diffusi e noti quotidiani di proprietà dei maggiori gruppi industriali e bancari del Paese si incaricarono di raccontare, con ipocrisia e tanta falsità, una storia romanzata di quei mesi. Gli effetti che ne scaturirono furono la distruzione dei partiti storici, Mario Segni li definiva in modo sprezzante: “partitocrazia”, per cui bisognava abolire tecnicismi elettorali, come le preferenze e cambiare il sistema di voto, da proporzionale in maggioritario, attraverso i referendum. Fu il tempo triste di una disastrosa esperienza, non solo per la pessima ricaduta che si ebbe nelle istituzioni dello Stato, ma soprattutto per i suicidi di importanti esponenti del mondo politico, economico e industriale.

Un prezzo altissimo fu fatto pagare a democristiani e socialisti, con un solo fine: abbattere i partiti storici, la Democrazia Cristiana in primis, creare destabilizzazione istituzionale, agevolare l’affermazione del capitale selvaggio a scapito del lavoro, nel sordo silenzio del sindacato. A cos’altro poteva servire l’artifizio, studiato bene a tavolino, del cambio del sistema elettorale, se non ad annientare la politica di centrosinistra che aveva come pilastro il partito della Democrazia Cristiana?

Ambienti influenti nazionali e stranieri, caduto il Muro, non avevano più interesse ad affidarsi alla Dc, perché interprete di un pensiero economico opposto a quello incarnato dalla sintesi di conservatorismo e liberismo: tatcherismo o reaganismo. Le politiche economiche adottate in Italia dai governi a guida Dc erano costruite su principi di economia mista pubblico-privato, secondo il pensiero di Keynes. Le teorie relative alla new-economy, alla deregulation invece spiegavano che il mercato potesse autoregolarsi e che non c’era bisogno di interventi esterni. Venne poi il tempo della “globalizzazione” e delle relative riforme, delle liberalizzazioni, chieste a gran voce dall’universo mondo economico, nazionale e internazionale, delle fusioni bancarie, dell’informazione, della grande distribuzione. Adesso, in tempo di coronavirus, si percepiscono le tristi conseguenze di quelle riforme scellerate volute dal Pds/Ds/Pd per lisciare il pelo alla Lega Nord. Gli ultimi lustri sono figli di quel tempo che ha prodotto fragilità, anonimato e impotenza degli attuali partiti politici.

Alcuni centri di ricerca hanno dedicato approfonditi studi sulle scelte legislative, in relazione alla riforma del titolo V della Carta Costituzionale, rivolgendo particolare interesse al federalismo fiscale, ne viene fuori un quadro raccapricciante e fallimentare maturato nella “Seconda Repubblica”. È la sintesi del tanto decantato nuovo corso politico, dopo il tramonto dei governi di centrosinistra, a guida Dc-Psi, il cui erede è stato Silvio Berlusconi con la sua Forza Italia.

Egli non poteva non essere bersaglio preferito dalla sinistra, dai media suoi oppositori di sempre, da taluni magistrati, come accadde ai suoi predecessori della cosiddetta “Prima Repubblica”. E allora, anche se innocente va condannato, perché incarna il “regno del male”. Una pagina di storia che resterà indelebile nei libri che leggeranno i nostri eredi. Il “nuovo” che nel 1992-94 doveva materializzarsi e che aveva come teorici la Lega di Bossi, il pool di Milano di Di Pietro, Mario Segni con i suoi referendum sulla legge elettorale, Leoluca Orlando della Rete fu solo una pia intenzione.

Un giorno, se gli storici vorranno analizzare questi singoli aspetti capiranno che sono elementi di un unico disegno organico ben studiato, finalizzato a prendere il posto degli uomini che avevano governato dal 1946 al 1994. Tutto qua, i roboanti proclami, gli squilli di tromba, il rullo dei tamburi sul fantomatico “nuovo” servivano solo a fare caciara.

 

 


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