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Erdogan, Santa Sofia e la politica del bazar. L’analisi di Cristiano

Se davvero, come si scrive in Turchia, la decisione è questa, i giudici turchi sembrano avere proprio ragione: per mutare le finalità d’uso di uno stabile non serve la sentenza dell’alta corte. Dunque il presidente turco se vuole fare di Santa Sofia una moschea e non più un museo può procedere con un semplice decreto presidenziale, come quello, certamente ancora valido, che ne ha fatto un museo.

Dunque emergono due elementi: il decreto di Ataturk è ancora legittimo e valido, ma il presidente Erdogan se vuole può farne un altro, di segno e senso opposto. Ed è il destino dei decreti presidenziali. Il testo ufficiale della decisione dell’alta corte turca sarà noto a metà mese, ma già ora è importante capire perché il presidente si sia rivolto alla suprema corte. Il primo elemento da considerare è che tutti sanno che non stiamo parlando di uno stabile qualsiasi, o di un museo ordinario, ma di un simbolo. Un simbolo mondiale di identità o di comprensione.

Santa Sofia non venne intestata a una delle tantissime sante cristiane, il suo nome indica la Santa Sapienza. Anche questo, oltre alla sua posizione e alla sua maestosa bellezza, ne ha fatto il simbolo dell’impero che ne fece la cattedrale patriarcale di Costantinopoli. La conquista ottomana della città la trasformò moschea, simbolo della nuova identità del nuovo impero che aveva conquistato la città e il suo gioiello.

La storia è stata sanguinosa, ma poi anche ricca, complessa, avvincente, certamente sia drammatica sia esaltante, impossibile tagliarla con l’accetta. E quando nacque la Turchia moderna Santa Sofia fu trasformata in museo. Molti hanno detto per indicare la “laicità” statale, meglio dire a mio avviso un indicatore di possibile coesistenza dopo i traumi storici ed eterni causati dal nazionalismo radicale.

Erdogan sa bene che gli estremisti nazionalisti e islamisti invocano di tornare al vecchio, a fare di Santa Sofia una moschea, proprio nel nome di quella visione totale, esclusivista: l’unicità di tutto. Ha cominciato a cavalcarla da leader solo quando si è sentito, dopo tanto tempo, in difficoltà e in calo nei consensi. Dunque voleva la copertura dei giudici? Forse per compiere con le spalle coperte un passo così forte.

Però potrebbe essere più plausibile che volesse “usare” un grande simbolo per farsi chiedere: di farlo e di non farlo. Ottenere più prestigio nel mondo islamico sbandato, in difficoltà, tra tanti conflitti e patimenti, e ottenere richieste, e qualche “pagherò” sottobanco, da chi teme un nuovo incendio identitario. Questa sarebbe una visione da bazar politico. Che non è campata per aria in tanti ambienti.

Facendo sapere che il 44% dei turchi sono favore dell’ “ipotesi moschea” i suoi collaboratori fanno capire che la base del leader lo vorrebbe, dunque il leader va aiutato… Alla base politica però, il cosiddetto “popolo umile” sempre alla ricerca di quale soddisfazione simbolica davanti alle sue difficoltà concrete, si dice che il leader è lui, quello che lo ha chiesto, ma i giudici non aiutano tanto.

Cosa farà Erdogan? Non credo si limiti a prendere tempo.

Certo il tempo gli consente di mantenere viva l’arma, ma come? Creando la paura dello scontro su Santa Sofia potrebbe cercare lo spazio intermedio, del genere “sarà moschea ma una volta al mese”, oppure “ nel parco e non all’interno”, o tutte e due. Ipotesi ovviamente, solo per indicare il cammino politico che sembra delinearsi. Cullare, solleticare il revanchismo di un mondo popolare impoverito, provato, scosso, e allarmare le cancellerie, cercare contropartite e lavorare alla ricerca di questo terreno mediano che consenta di ottenere qualcosa di qua e di là. Quella del doppio forno è una strategia che con la costruzione di un terreno mediano può essere usata anche contestualmente: è una tecnica che nei bazar si conosce bene, dare qualcosa in più al povero ma bravo produttore e chiedere qualcosa in più al ricco compratore. Ottenendo da entrambi ciò che si può ottenere.

Il problema reale, cioè la vita comune in un mondo che collega i mondi, e che potrebbe unirli in una nuova prospettiva cittadina, sembra relegato solo sullo sfondo. Purtroppo. Ma quello è il terreno che fa davvero di Santa Sofia un simbolo mediterraneo, un luogo che dovrebbe essere vivo e che proprio nella sua dimensione compromissoria di museo dimostra quanto l’idea di Mediterraneo seguiti a svanire nella mente di politici dal fiato corto e i bisogni urgenti. Le politiche identitarie danneggiano i popoli di questo bacino che non rinuncia però ad essere un pozzo di Sofia, cioè di Sapienza. Verranno tempi migliori.



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