Le cronache recenti confermano che il Mediterraneo è sempre di più al centro del confronto geopolitico tra potenze. Siano esse orientate a rafforzare uno status di rilievo regionale, dalla Turchia all’Egitto, all’Iran all’Arabia Saudita, oppure si tratti delle grandi potenze con proiezione globale come Russia, Stati Uniti e Cina, tutte sono ormai sempre di più coinvolte in una competizione nuova, dai tratti più irregolari e complessi rispetto al passato, per la primazia nello spazio geopolitico mediterraneo.
Questo avviene non solo perché il sistema politico internazionale sta diventando sempre di più multipolare e altamente competitivo in molte aree del pianeta, ma anche perché il Mediterraneo ha riacquisito una sua centralità strategica derivante da diversi fattori: dalla presenza dei grandi giacimenti di oil and gas e dal fatto che attorno al suo bacino e nell’area allargata del Grande Medio Oriente si trovano quasi tutti i maggiori paesi produttori al mondo, ma anche per la presenza in questa area di interessi strategici, economici, politici di grande rilievo per tutti paesi più importanti al mondo. Basti citare come esempio la presenza cinese nella regione, con la nuova Belt and Road e i suoi corridoi terrestri e marittimi, oppure alla strategia di accesso all’Africa che attraverso la presenza nel Mediterraneo la stessa Cina, e anche Turchia e Russia stanno cercando di attuare.
È chiaro quindi che chi ambisce ad un ruolo di primo piano nel mondo ha necessità di essere un protagonista nel Mediterraneo, oggi forse di più di qualche anno fa.
Questa regione però ha anche un peso storico-culturale che grava sui suoi equilibri interni oltre a darle una rilevanza che poche altre aree del mondo hanno. Culla della civiltà greco-romana, mare in cui si affacciano le terre che hanno visto crescere le prime grandi civiltà (senza nulla togliere alle altre ovviamente) e soprattutto, regione dove si trovano i principali luoghi sacri delle grandi religioni monoteiste e dove queste sono nate e si sono affermate. Religioni e culture pesano ancora molto in questa regione, anche rispetto ai suoi conflitti interni. Non per evocare lo scontro di civiltà, ma è indispensabile tenere presente le differenze che anche tra le grandi religioni e all’interno delle stesse esistono. Infatti da un lato si trova la regione europea in cui nel tempo, per motivi diversi, si è affermato il processo di secolarizzazione e la netta distinzione tra la sfera dello Stato e quella religiosa. Una distinzione che rende difficoltoso confrontarsi invece con le notevoli differenze, proprio nei rapporti tra politica e religione e nella concezione stessa dello Stato e delle istituzioni, che emerge nella Sponda Sud.
Qui invece, nonostante i movimenti politici nazionali e laici del Novecento, non a caso figli spesso di ideologie “importate” dall’Europa come il nazionalismo, il liberalismo o il socialismo, la dimensione politica stenta talvolta a trovare una dimensione nazionale ed è spesso ancora sovrapposta o intrecciata con quella religiosa. Questo avviene sia per la natura stessa dell’Islam sunnita, ma anche per effetto della presenza dell’islamismo politico radicale, e dall’altro per l’emergere di fenomeni radicali violenti, come il jihadismo, che tendono a voler riaffermare la costruzione di un nuovo Califfato come unica entità politico/religiosa in grado di unire tutta la Umma. Questa distinzione, anche nella comprensione di molti fenomeni radicali e violenti che negli anni hanno interessato il complesso mondo islamico, che ne rappresentano una minoranza, ma che non sono irrilevanti, è molto importante per capire come si muovono alcune dinamiche che interessano i paesi della Sponda Sud e possono destabilizzarli, data la natura spesso precaria delle loro istituzioni nazionali e la soluzione talvolta autoritaria che in alcuni regimi è stata data per mantenere in essere il sistema.
Durante le Primavere arabe, inizialmente, la componente jihadista era sostanzialmente assente o irrilevante. Dopo il loro fallimento, si è invece rafforzata e moltiplicata in molti paesi, fino ad esprimere, con il tentativo fallito del sedicente Stato Islamico, un progetto di conquista della leadership della galassia islamista radicale. Una vicenda che ancora oggi ha lasciato una traccia profonda nella regione.
Il Mediterraneo è dunque uno spazio geografico e geo-politico, in cui si misurano amicizie e rivalità antiche, un intreccio di culture diverse, di scambi e tradizioni religiose consolidati attraverso i secoli che la rendono unica nel panorama mondiale e dalla cui evoluzione storica dipende anche una parte essenziale dell’identità stessa e dei valori dell’Europa e dell’Occidente.
I processi che hanno portato allo stato attuale di frammentazione e instabilità nella regione affondano ovviamente una parte rilevante delle loro origini nella storia: si registrano oggi tendenze geopolitiche e rivalità in essere, alcune di recente formazione ma altre esistenti da secoli, che soprattutto dopo il disordine generato con le Primavere arabe sono riesplose o riemerse in maniera dirompente.
Infatti, le tante linee di frattura che attraversano la regione, riguardano sia la dimensione religiosa che quella politica e statuale, talvolta confondendosi insieme. Se guardiamo il grande e complesso mondo mussulmano, vediamo come per esempio oltre al confronto riesploso prepotentemente tra Sciiti e Sunniti, sono apparse divisioni molto nette all’interno dello stesso campo sunnita, dove si misurano sostanzialmente due differenti schieramenti, di cui sono rispettivamente capofila Egitto, Emirati Arabi e Arabia Saudita da un lato e Turchia e Qatar dall’altro. Questa competizione interna al mondo mussulmano è stata rafforzata dalle rivalità storiche tra i principali paesi della regione: non è un caso se le tre principali crisi ancora in essere nell’area (Siria, Libia e Yemen) sono anche i tre principali campi di battaglia in cui il confronto tra queste potenze regionali si sta misurando.
Però è necessario constatare come, nella ricerca di un primato da parte dei principali attori presenti anche in queste crisi, a partire dalla vicenda siriana e soprattutto oggi in Libia, si stia affermando una via sempre più “muscolare” di protagonismo, che spinge a sfruttare sempre di più l’uso della forza, esercitata sia direttamente che indirettamente, insieme a strategie di propaganda e disinformazione, di ingerenza politica ed economica. Molta meno diplomazia quindi e molto più impegno militare, a volte solo minacciato, altre diretto. Non è un caso se i paesi che ambiscono ad un protagonismo nella regione, oltre a non manifestare particolari problemi nell’impiego delle proprie armi (si pensi alla Turchia o alla Russia), sono attivamente impegnati in una corsa al proprio riarmo che ha pochi eguali nel mondo. Elementi entrambi di forte differenza, rispetto ai paesi occidentali, ma su cui è necessario quanto prima che proprio i paesi europei si interroghino seriamente.
Si può notare come ad un alto livello di attivismo militare in tutte o quasi le crisi dell’area, anche attraverso l’impiego dei propri mezzi militari o il sostegno a milizie e gruppi armati locali, sia stata unita una strategia di ingerenza spinta negli affari dei paesi più vicini, di attivismo economico e finanziario, fino alla rivendicazione di un ruolo di “guida” politica e di protagonismo geopolitico. Si pensi per esempio all’Iran con la sua proiezione di potenza regionale, tesa ad allargare la propria sfera di influenza a tutto il mondo sciita ma anche ad intervenire politicamente e militarmente in molti paesi spesso in contrapposizione con le potenze del Golfo; ma anche alla Turchia di Erdogan con le sue ambizioni “neo-ottomane”, sempre più protagonista, sul piano politico e militare, con ambizioni di potenza regionale capace di confrontarsi non solo con Europa e USA ma anche con la Russia e la Cina, vantando interessi che dalla Libia vanno fino alla Siria e all’Asia Centrale, ma riguardano anche i Balcani, Cipro, il Mediterraneo orientale e il rapporto con la Grecia e l’Egitto. Ma anche l’Egitto di Al Sisi, che sta cercando di rivendicare un proprio ruolo nella regione in linea con la storia del Paese, forte delle sue dimensioni demografiche in espansione e della sua posizione strategica, sempre più deciso a svolgere un ruolo “geopolitico” sia nel confronto con la Turchia che in alcune aree del’Africa, dalla Libia al Corno d’Africa, o l’Arabia Saudita (con i paesi affiliati nel Golfo), che pretende di svolgere un ruolo di protagonista nel mondo arabo-sunnita, in contrapposizione soprattutto con Turchia, Qatar e soprattutto Iran, accreditandosi anche come l’alleato più affidabile degli USA nell’area.
Se al protagonismo di questi attori si aggiungono alcuni fatti storici avvenuti in questi anni dal ritorno dei Russi come potenza mediterranea, al progressivo disimpegno americano, fino all’esplosione del fenomeno Stato Islamico e alla nuova ondata di diffusione del jihadismo in molti paesi dell’area, diventa palese quanto il quadro sia notevolmente mutato e si sia complicato.
Gli scenari sono cambiati radicalmente, i paesi europei, Italia e Francia per primi, rischiano di essere marginalizzati nella regione, anche a causa di alcuni errori commessi negli anni e di divisioni sbagliate che hanno finito per danneggiare entrambi. Ma è tutta l’Europa e il resto dell’Occidente che da questa situazione rischia di perdere. Il disimpegno americano nell’area, avviato già ai tempi di Obama, ha lasciato ampi spazi di azione e di iniziativa a Russi, Cinesi e anche alle potenze locali, che si sono in qualche modo sentite meno vincolate e libere nel perseguire i propri interessi nazionali.
L’Europa è rimasta sostanzialmente a guardare, da un lato afflitta dalla paura delle ondate migratorie e della minaccia terroristica, dall’altro incapace di darsi una strategia capace di comprendere le dinamiche in essere per affrontarle. Anche perché in questa epoca in cui “trionfano” le minacce asimmetriche, la reazione più naturale è sembrata essere la chiusura e la tutela della sicurezza interna, senza comprendere però le reali cause dell’insicurezza diffusa che affondano spesso proprio nella natura mutevole e asimmetrica delle nuove minacce e nella prolungata instabilità politico/sociale. Il Mediterraneo è cambiato, ma il nostro modo di guardare alla sua realtà e ai suoi problemi non lo è a sufficienza.
Rispetto a quanto immaginato negli anni Novanta a Barcellona con i programmi Med 1 e Med 2 e l’idea di un’area commerciale di libero scambio nel Mediterraneo siamo oggi entrati in un’altra fase della storia. Quel tipo di proposta, incentrata su una soluzione esclusivamente politico-commerciale è stata spazzata via dal dirompente esplodere delle Primavere arabe che hanno stravolto l’orizzonte e lasciato di fatto l’Europa senza una strategia. Al contrario, per riacquisire leadership e una rinnovata capacità di azione da parte europea e occidentale, serve una nuova visione strategica proiettata sulla regione in cui siano chiari ruoli e obiettivi, ma anche gli strumenti, non più solo diplomatici, da utilizzare. Infatti non può bastare più una sola azione incentrata sulla via politica, ma serve qualcosa di più ampio e con una diversa capacità di interazione con gli attori coinvolti, recuperando un ruolo di arbitro nelle contese esistenti. Nella consapevolezza che chi oggi esercita un ruolo nel Mediterraneo lo fa con energia e muscoli, non negando la possibilità di scendere anche con i “boots on the ground”, se necessario.
Le divisioni che in questi anni hanno visto contrapposti in alcuni casi i paesi europei, così come la timidezza verso la crisi in atto o le reticenze dei paesi nordici ad interessarsi del Mediterraneo, vanno tutti superati. È necessario mettere in campo una strategia comune, di cui l’Europa deve essere attiva protagonista, condivisa con gli alleati, che guardi al Mediterraneo e all’Africa senza indugi, capace di impiegare risorse economiche, politiche, diplomatiche che sono la forza maggiore dell’Unione, e se necessario anche militari. Su questo è indispensabile non solo investire sulla capacità autonoma europea, ma anche coinvolgere la NATO, anche sul piano politico, e gli Stati Uniti. E con la NATO e i gli Stati Uniti cercare di riallacciare i rapporti con i principali paesi partners nella regione, in un disegno di collaborazione che deve avere anche una prospettiva geopolitica e non solo economica. Vale per il rapporto indispensabile con Israele, ma anche coi paesi del Golfo, l’Egitto, e con la necessità di un chiarimento, anche la Turchia. Russia, Cina, Iran sono tutti pronti ad approfittare delle divisioni nel campo occidentale per guadagnare posizioni che poi difficilmente potranno essere riaquisite. Si tratta di una complessa partita scacchi da cui dipende però molto del nostro futuro prossimo, e che per questo va giocata.
Le principali crisi che riguardano la sicurezza dell’Europa e interessano direttamente o indirettamente tutti i suoi paesi maggiori (Italia, Francia, Spagna, Germania, Grecia) originano nel bacino del Mediterraneo e nelle regioni marittime o continentali limitrofe (Golfo, Corno d’Africa, Caucaso, Sahel, Mar Nero): dalla Libia alla Siria, dalla Somalia allo Yemen, fino alla fascia instabile del Sahel, da cui provengono molti dei fluissi migratori o delle minacce alla sicurezza europea, fino alla stessa crisi ucraina, originata per il controllo della Crimea. Ma a queste crisi, che hanno avuto sbocchi di tipo militare o violenti che gravano direttamente sui confini dell’Europa, vanno aggiunte altre situazioni di tensione in essere, che riguardano l’area di Cipro e il controllo dei giacimenti energetici nel Mediterraneo orientale, che coinvolgono i paesi europei e due grandi paesi come Turchia ed Egitto, oppure la tensione che va accumulandosi a causa della non soluzione della vicenda palestinese e gli attriti che ciclicamente si producono dell’area intorno della Terra Santa e Israele.
Inoltre si devono sempre ricordare altre situazioni a rischio che possono originare nuove crisi o nuove tensioni, derivanti da paesi la cui stabilità politica/economica potrebbe essere fortemente fragile, come il Libano, uno dei paesi più instabili del Mediterraneo orientale dove sono presenti tensioni di natura politica, economica e religiosa e non mancano le ingerenze esterne, ma anche l’Iraq, altro paese cruciale per la lotta al terrorismo ma anche per la produzione di petrolio e la sua posizione strategica nel cuore del Levante. In entrambi questi due paesi operano contingenti militari italiani nel quadro di missioni internazionali molto importanti per la tenuta dell’area. Ma vanno ricordati anche Tunisia, Algeria, o l’area dei Balcani. Paesi dove gli interessi europei, e italiani, sono molto significativi e che oggi sono esposti a rischi di instabilità per ragioni interne sedimentate nel tempo e per la drammaticità della fase attuale. Se a queste, si aggiungono gli effetti e le ricadute dell’emergenza Covid, sia sul piano sanitario che a livello politico, sociale, economico, diventa chiaro quanto il Mediterraneo potrebbe diventare una grande polveriera pronta ad esplodere.
L’inadeguatezza della risposta europea in questi anni, a partire dalle Primavere arabe in poi fino oggi alla crisi derivante dalla pandemia, è evidente. Una debolezza figlia soprattutto di divisioni, tra gli stati europei, e di miopia politica, oltre che legata alla fragilità strutturale dell’Unione come soggetto politico unitario dotato di una sua proiezione globale. Nel Mediterraneo però si gioca il futuro dell’Unione e anche dell’unità del campo occidentale. Non sono in gioco solo interessi economici o commerciali, ma l’identità stessa dell’Europa e la sua sicurezza, la stabilità dei suoi confini e la capacità di agire, oltre che sentirsi, un soggetto unico.
Proprio i cambiamenti in atto negli equilibri della regione dovrebbero essere un elemento sufficiente per spingere i paesi occidentali a definire questa strategia più omogenea e condivisa sul Mediterraneo. Di cui l’Italia ha tutti gli interessi ad essere promotrice.
Del resto il Mediterraneo è anche una regione dalle grandi opportunità di sviluppo e di crescita, dove sono concentrati, non a caso, gli interessi strategici di tutti i grandi attori della politica internazionale, e si trovano anche i nostri interessi strategici nazionali. Le opportunità di sviluppo e di crescita economica sono notevoli, in tutta la regione, e l’Italia, anche grazie alle attività delle sue imprese e alla sua posizione geografica, ha indubbiamente grandi potenzialità da sfruttare, a livello politico, diplomatico che economico. Ma serve una visione comune e condivisa, con risorse economiche e un nuovo protagonismo che tenga conto di come si è evoluto lo scenario geopolitico mediterraneo, messi in campo non solo dall’Italia, ma da tutti i grandi paesi europei. Superare le divisioni e gli egoismi è indispensabile. È indispensabile che il nostro Paese rilanci la collaborazione nell’area mediterranea con i principali alleati europei, a partire dalla Francia, che rimane un alleato strategicamente molto importante per noi nell’azione verso la Sponda Sud ed essenziale per mettere il Mediterraneo al centro dell’interesse europeo e atlantico. Quello che viene deciso oggi, e ciò che seguirà le decisioni prese avrà effetti per molto tempo. Si tratta di uno spartiacque da cui dipende, nei prossimi anni, la possibilità per i paesi occidentali di contare in questa regione
L’Italia ha molte carte da giocare e deve spendersi di più per giocarle tutte sia in prima persona, che per farsi promotrice di un approccio nuovo di tutti i paesi europei e occidentali. A partire dalla Libia, che è una priorità, su cui da soli possiamo fare poco, ma anche nel resto dei rapporti e delle relazioni, soprattutto di tipo politico ed economico, nel Nord Africa. Per esempio a differenza della lettura che alcuni danno della vicenda, la scelta della collaborazione in ambito industriale-militare con l’Egitto potrebbe essere una mossa utile a riaprirci degli spazi di iniziativa anche di natura geopolitica. Però è necessario cogliere il fatto che in un quadro così dinamico ed in evoluzione, avere un approccio statico, e unidirezionale può essere un limite. Invece è necessario agire con velocità e flessibilità, consapevoli del campo in cui ci muoviamo e del fatto che nel nuovo sistema multipolare alleati e scenari possono cambiare velocemente. È indispensabile avere un approccio strategico anche nelle relazioni che si costruiscono, senza negarsi o precludersi la possibilità di dialogo con tutti i maggiori protagonisti presenti e anzi, puntando sulla nostra capacità di dialogo storicamente riconosciuta, per sviluppare collaborazioni e confronto sia con il mondo sunnita, in tutta la sua articolata complessità, che con quello sciita.
La stella polare non può che essere l’interesse nazionale che si vuole perseguire. Alla luce delle evoluzioni in atto e nella necessità di sviluppare un approccio più dinamico, è indispensabile aggiornare la nostra stessa idea di interesse nazionale da perseguire.
Nel Mediterraneo i nostri interessi strategici principali, se non vengono protetti e promossi, sono oggi minacciati. E stiamo parlando di tutti i maggiori interessi economici, energetici, militari, politici del nostro paese, quelli che compongono il cuore pulsante del nostro interesse nazionale.
Per difenderli e promuoverli è necessario un maggiore protagonismo italiano sia a livello europeo che mediterraneo, da soli e a fianco degli alleati. Le due cose devono stare insieme e si rafforzano a vicenda. Non sarà ritirandoci esclusivamente in noi stessi che potremo difendere le nostre legittime aspirazioni in questa regione. Alle crisi in corso, di fronte alle rivalità e alle ambizioni emergenti nel Mediterraneo, serviranno risposte figlie di un disegno comune, di un progetto che veda l’Unione Europea di più un “soggetto geopolitico”, come ha detto più volte la Presidente Von der Leyen, che solamente economico. Ma per conseguire questo salto di qualità il ruolo dell’Italia in Europa è determinante: sfruttando la nostra storia, il nostro ruolo, le nostre capacità, la nostra presenza nella regione.
Noi non possiamo rinunciare alla nostra proiezione mediterranea, cuore della nostra politica estera da prima che l’Italia fosse uno Stato unitario, così come l’Europa non può illudersi di fare a meno di interessarsi di cosa accade in questa regione. Abbiamo bisogno gli uni degli altri e viceversa. E abbiamo entrambi interesse a ridare a tutto l’Occidente una centralità politica e una capacità di essere arbitro in questa regione.
Non ci mancano gli strumenti da utilizzare né lo spazio di azione per ottenere questo obiettivo, ambizioso, ma indispensabile. Ma se non si agisce rapidamente potrebbe mancare il tempo e potremmo rimanere tagliati fuori inesorabilmente. Non più arbitri, ma nemmeno giocatori.