La prima elaborazione compiuta della “guerra ibrida”, da parte dei russi, che comunque l’hanno inventata, avviene in un articolo del gen. Gerasimov, allora capo di Stato Maggiore delle Forze Russe, in un saggio pubblicato, nel febbraio 2013, nella rivista settimanale Corriere Militare-Industriale.
L’alto grado del Comando russo parte da una semplice considerazione, ovvero che, soprattutto nel periodo post-guerra fredda ma, volendo anche prima, ogni azione militare, regionale o continentale, si è sempre più avvicinata a quella linea in cui le operazioni pacifiche e quelle militari in senso proprio tendono a confondersi.
L’articolo si intitolava, piuttosto anodinamente, “Il valore della Scienza è nella previsione”. Riferimento sibillino ma, vedremo, ben chiaro in seguito.
Esperienze, quelle post-guerra fredda, che segnano l’idea centrale di Gerasimov: all’inizio della meditazione strategica del generale russo c’è comunque la Revolution in Military Affairs, la dottrina Usa degli anni 2000 che pone al centro il rapporto tra nuove tecnologie e la stessa riorganizzazione totale, proprio attraverso nuove tecnologie, delle FF.AA. nordamericane.
Sia i russi che i cinesi pongono quella Rma, che vedono ben operante in Iraq, come il terminus a quo della loro necessaria trasformazione delle tecnologie, degli obiettivi, ma soprattutto delle organizzazioni militari.
La disfatta di Caporetto fu organizzata da un giovanissimo tenente tedesco Erwin Rommel che, senza troppi gradi e gerarchie, compose una unità che spezzò i contatti tra la II e la III Armata italiana con le sue squadre d’assalto con soli 11 uomini e tre mitragliatrici, in funzione di contrattacco.
Il paradosso, comunque, è che è stato invece un grande generale russo e sovietico, Ogarkov, ad aver inventato la stessa Rma, che lui chiamò Rivoluzione Tecnologica Militare.
Per Ogarkov, le nuove tecnologie, come la robotica e le armi a energia diretta, avrebbero disegnato tutto il nuovo spazio delle operazioni e, perfino, la stessa funzione politica della guerra, mettendo ai margini le vaste masse di fanteria che anticamente erano necessarie per vincere.
Si pensi qui, per contrasto, alla vittoria dell’Urss contro il Terzo Reich, da sempre modello del pensiero moderno dei sovietici e poi dei russi. La “guerra ibrida” è un modo, in sostanza, per aggiungere le masse necessarie sul terreno, ma in funzione proprio della Rma e delle nuove applicazioni della guerra psicologica. Ovvero, senza irregimentarle inutilmente in un vecchio esercito ottocentesco.
Gerasimov dice poi, giustamente, che le stesse regole di base della guerra sono cambiate: è aumentato a dismisura il ruolo delle strutture non-militari utili per raggiungere obiettivi che prima erano esclusivi della guerra, e qui i russi hanno in mente le operazioni di soft power e di influenza, economica e culturale, degli Usa e della Nato, ma anche in molti casi, è questo il punto che fa nascere il concetto di “guerra ibrida”, i mezzi non-tradizionali che hanno raggiunto e talvolta superato gli effetti delle armi convenzionali. Guerra finanziaria? Guerra di manipolazione informativa? Guerra delle materie prime? Dipende da dove ti trovi.
Quindi, alla guerra convenzionale stanno in relazione gli eserciti, e la loro dimensione definisce la loro capacità di “durare”, ma solo fino al punto di rottura del nemico.
Durare, una categoria filosofica e perfino strategica che Henri Bergson, il grande pensatore francese, quello che se ne andò in giro con la stella gialla da ebreo di fronte alle SS nella Francia occupata, descrisse nel suo “La Force qui s’use et la Force qui ne s’use pas”.
Gerasimov pensa, nella sua guerra ibrida, alle grandi forze per il peacekeeping, che oggi dispone di ben 11mila “poliziotti” Onu, spesso con regole d’ingaggio che sono valide soprattutto per i bambini che giocano a calcio nei parchi, ma presto saranno 16.900 tra tre anni.
Ci saranno da risolvere i casi del Darfur, Ciad e Repubblica Centrafricana, dove l’Onu e i suoi peacekeepers dovranno convincere, a forza di grida manzoniane e partite di calcio (ci risiamo) un accordo di pace, l’ennesimo, tra il Justice and Equality Movement e i Janjawid.
Le Ong, ottimo strumento di influenza, ammette anche Gerasimov, servono a sanificare gli effetti sulla popolazione delle operazioni belliche, nulla di più.
Quindi, sempre per Gerasimov, la vittoria finale nasce soprattutto dal lavoro coperto e simmetrico di tante organizzazioni: i volontari locali, i militari alleati, le organizzazioni popolari più o meno “spontanee”, le reti di sicurezza delle imprese, la manovalanza delle organizzazioni criminali (che tutti comunque hanno usato) e le grandi manifestazioni di massa, oltre alle tradizionali operazioni di psyops.
È questa, all’inizio, la risposta russa alle operazioni Usa e Nato nella ex-Jugoslavia, dove Mosca teneva fortemente alla Serbia, come all’asse del proprio interesse nazionale dei Balcani. Che esiste, ovviamente.
Ma gli Usa reagirono scegliendo soprattutto il jihad, malgrado la rapida entrata di Mosca, a sorpresa, in Kosovo nel 1999, quando, appunto, le truppe di Mosca basate in Bosnia entrarono, rompendo un vecchio accordo con la Nato, a Pristina, portandovi truppe di Mosca per la chiusura del confine tra il Kosovo e la Serbia.
È questo il momento in cui gli Usa si radicalizzarono, per un pregiudizio antirusso, nella protezione di Paesi balcanici e non ormai quasi del tutto jihadisti.
E poi, c’è la successiva e stabile presenza Usa nel jihad bosniaco, con Alja Izetbegovic, quando Serajevo era visitata spesso da Osama bin Laden.
Gerasimov è stato comunque buon profeta: gli irregolari in Crimea, gli altri irregolari in Cecenia, tanti altri “omini verdi” in Georgia e poi in molte aree periferiche del nuovo impero russo, hanno fatto un ottimo lavoro e ancora lo faranno.
Perché, certamente, la superiorità tecnologica conta, anzi è essenziale, ma quello che conta davvero è la piena e assoluta potestà politica su un territorio o su una determinata tecnologia, operazione, azione di influenza, azione di Area Denial.
La dottrina cinese della guerra ibrida è ben diversa da quella russa: per Mosca, occorre sempre e comunque una relazione stabile tra il suo Ovest e la penisola eurasiatica, altrimenti la Federazione Russa è in grandissima parte solo Asia, Islam e Far East siberiano.
Per Pechino, la dottrina hybrid è sempre erede diretta di Sun Tzu, e si definisce oggi come la tecnica di “vincere senza combattere”.
Intanto, la Cina vuole securizzare i territori periferici che la interessano, ma senza sparare un colpo.
La zona del Mar Cinese Meridionale, l’area delle isole Senkaku-Diaoyu, la zona di Guam, il mare del Vietnam, poi la base aerea, fondamentale per gli Usa di Guam (con le locazioni “Andersen” e“Apra”) per poi arrivare fino alle Filippine e, naturalmente, a Taiwan.
Ma anche il jihad, lo si voglia capire o no, ha imparato, con grande intelligenza, la lezione della guerra ibrida.
Che ha fuso, anche trascurando qualche secondaria normativa coranica, con la guerra di nuova concezione, che i cinesi leggono come “guerra senza limiti”.
Gli Usa e gli occidentali leggono tutta questa nuova guerra ibrida solo come “terrorismo”, attribuendola a qualche “matto”, secondo il copione stantio della reductio ad hitlerum, ma si tratta di una nuovissima forma di guerra, una nuova, appunto, guerra “da debole a forte”, come l’arma nucleare francese contro i sovietici (e non solo) e come oggi la pensano, ma parificando i potenziali N, i russi.
Una guerra, quella ibrida, che raccoglie tutte le sezioni della società civile, le manipola, le mette insieme e le rivolge verso una guerriglia di tipo Stay Behind-Gladio, ma adattata ai tempi moderni e futuri.
Qui non si tratta di fare resistenza, come nelle vecchie Gladio, fino a che la “gente non si ribelli”, o per rallentare la quasi certa conquista, da parte del Patto di Varsavia, della Pianura Padana, perché gli invasori nuovi e i loro amici staranno bene attenti a non urtare le abitudini e le necessità della popolazione locale non belligerante. E non si prenderanno il territorio, ma le sue risorse.
Anzi, tutt’altro: i russi, sempre con la loro guerra ibrida, faranno soprattutto operazioni “da debole a forte” bloccando le azioni informative del loro nemico, sostenendo materialmente la popolazione, mischiandosi ad essa e quindi diventando irriconoscibili e, soprattutto, mettendo in atto operazioni del tutto non-convenzionali.
O si prendono le stazioni radio e Tv, come fece all’inizio della sua rivoluzione Nasser con i suoi “Ufficiali Liberi”, oppure, oggi, si comandano da remoto i social media, sia tramite le fake news, che sono veri strumenti di guerra “non ortodossa”, come la si chiamava alla Nato quando un ufficiale dei Marines, che la dirigeva, si trovò circuìto da una bella ragazza dei Servizi della Ddr, o magari anche con le tecniche di sostegno, manipolazione locale, protezione della popolazione locale.
Quindi, oggi la Russia gioca soprattutto al gioco degli attori non-statuali, anche imitandoli, ma allora c’è tutta la panoplia della guerra non ortodossa attuale. Si fa, evangelicamente, piccola con i piccoli e grande con i grandi.
L’importante è sempre eliminare le aree-cuscinetto intorno al nemico che, per Mosca, è sempre l’Ovest e gli Usa. La manipolazione della immigrazione illegale, per esempio, oppure l’organizzazione di colpi di mano o di operazioni separatiste, modellando il meccanismo suddetto come fecero gli Usa con Otpor, “Resistenza”, vecchio marchio che oggi nessuno usa o comprende più, che organizzò la lotta contro Milosevic dai sottoscala della Ambasciata Usa in Ungheria, oppure perfino l’assassinio mirato, o anche l’utilizzazione, come armi strategiche, degli asset energetici.
La tunnel vision degli occidentali nei confronti del “terrorismo islamico” ha fatto il resto. E li ha chiusi nel tunnel.
Mentre si aspettava un nemico che operava con criteri ben diversi dai consueti, ed è per questo che, fino ad ora, l’occidente ha fallito con il jihad, arrivava un altro nemico, che mimava il jihad ma da Stato a Stato, ed era ben più pericoloso. Negli anni ’90, Mosca ha elaborato ben quattro documenti strategici.
Nelle valutazioni Nato dello stesso periodo, soprattutto nell’ambito della guerra ibrida, c’è poco o niente di politica e poco di operatività.
Sembra che la regola clausewitziana, quella che “la vittoria è l’imposizione della propria volontà al nemico”, sia stata dimenticata e proprio dagli occidentali.
Una sorta di teoria della “riduzione del danno”, come con le droghe giovanili, o un ricordo di quando eravamo bravi, durante la cold war, a lanciare i manifestini sulla popolazione del nemico.
Troppo poco. Molto di più fece il carpet/saturation bombing, elaborato dal britannico, dopo molti esempi nazisti, sir Arthur Tedder.
Tutte queste note di Gerasimov-Primakov sono comunque contenute nelle varie dottrine militari siglate da Putin.
Nel gennaio 2000, il presidente russo firma il primo National Security Concept moderno e alla Gerasimov, dove si elencano i fattori di destabilizzazione, che sono anche quelli che Mosca vede nelle operazioni esistenti oggi nell’Est: frazionismo etnico e nazionalista, oltre che religioso, tema che è ben lontano dalla dottrina occidentale, che esalta appunto il frazionismo, come è accaduto nel template della attuale guerra ibrida, la Seconda Guerra Jugoslava.
Poi c’è l’indebolimento degli attuali meccanismi di controllo internazionale delle crisi, che vediamo agire attualmente nell’Onu e nelle sue organizzazioni periferiche, alle quali, peraltro, gli Usa non vogliono più partecipare, e poi, ma questo è proprio dedicato all’Ovest, la “illegale applicazione della forza militare con il pretesto della operazione umanitaria”.
La risposta di questo testo russo è direttamente rivolta al Concetto Strategico della Nato del 1999, in cui si affermava invece, da parte russa, che solo il Consiglio di Sicurezza Onu poteva stabilire norme legali per gli interventi regionali.
Certo, per poi esserci insieme all’Ovest. E controllarlo.
Gli interessi nazionali russi, affermati nel documento del 2000, sono ancora quelli: la cooperazione militare nella Cis, sulla quale Mosca non vuole occhi estranei, la creazione di uno spazio militare unificato (che è la base della guerra ibrida) oltre all’unità stabile con la Bielorussia, dove gli agenti occidentali stanno oggi operando attivamente.
Il criterio è sempre quello della “broad security”, per Mosca. Fin qui, la Federazione Russa, appunto. E la Nato? Dal 2015, siamo arrivati in grave ritardo, la Alleanza Atlantica ha raggiunto una sua “dottrina” per la guerra ibrida.
Sempre per la Nato, che forse non ha capito l’entità e le tipologie della minaccia (e infatti in Crimea ha perso) la guerra ibrida è “propaganda, inganno strategico, sabotaggio”.
Forse lo era anticamente, ma oggi la guerra hybrid, come abbiamo rapidamente notato, è molto di più.
Peraltro, la responsabilità di contrastare le operazioni ibride, che non sono ben definite nel testo Nato, cade nella unica responsabilità della nazione alleata.
Il 360° approach approvato dall’Alleanza nel luglio 2018, ha poi stabilito, nei confronti della Russia, che la Nato ha l’intenzione di attuare uno spiegamento avanzato di forze convenzionali di deterrenza negli Stati Baltici.
Poi, la Nato sta creando un centro per operazioni cyber per poi rafforzare anche la “resilienza”, ormai parola magica, dei Paesi interessati.
Tutto bene, ma non c’è mai una strategia di attacco. Certo, l’Alleanza è solo difensiva, ma una idea che la difesa e l’attacco sono uniti insieme sarebbe bene averla, da Tucidide ai giorni nostri.
Poi, c’è il sostegno ai Paesi del fianco Sud, con un genericissimo rafforzamento della “lotta al terrorismo”, per cui abbiamo già detto supra.
Certo, l’operazione 360°approach afferma, beata lei, di aver “impantanato” Putin in Crimea, ma accetta già la sostanziale sconfitta nel Fianco Sud, dove ci sarebbe comunque una rafforzata “lotta al terrorismo”, qualunque cosa si voglia dire con questa formula.
Quindi “guerra totale”, altro che pannicelli caldi, anche in tempo di pace, ed è questo il vero obiettivo finale della “guerra ibrida”, mentre la guerra mondiale è oggi mantenuta, nel regno della sola possibilità, dal residuo potere di first e second strike, convenzionale e non, degli Usa. Che non durerà per sempre, certamente.
Gli unici che stanno pensando ai nuovi scenari, lasciando stare gli azzeccagarbugli nostri, nei Servizi e fuori, sono i francesi.
Il generale Thierry Burckardt, uomo della Legione Straniera, pensa a un nuovo concetto: dopo la sconfitta o, comunque, la marginalizzazione del jihad, il vero scontro futuro sarà il ritorno del vecchio nel nuovo, la lotta tra Stati e Stati.
I conflitti del futuro saranno nuovamente simmetrici, Stato contro Stato. L’Europa, dice sempre il comandante legionario, è diventata strutturalmente debole, non “pensa” il conflitto, quindi lo perderà.
Quindi ancora, dice sempre il generale Burchardt, la Francia dovrà indurire militarmente la sua Armée de Terre, poi dovrà concentrare se stessa sulla dissuasione credibile, anche N, oltre alla nuova concentrazione delle sue operazioni future sia nel cyber che sul terreno.
Una contro-guerra ibrida. E in Italia, come al solito, abbiamo dei poveri ragionieri al governo, nemmeno particolarmente bravi, e il resto va di conseguenza.