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Perché il post Covid-19 è (già) un’occasione persa. Il commento di Balducci

Il presidente di Confindustria ha rinfacciato al governo, nell’ambito dei cosiddetti Stati generali, il ritardo nei rimborsi Iva e la mancata restituzione alle imprese delle accise, restituzione dovuta a seguito di sentenza passata in giudicato. Il presidente Conte ha ribadito che il governo non può essere ritenuto responsabile di problemi che hanno origini lontane.

Le origini dei nostri problemi sono sicuramente lontane ma non sembra che questo governo stia facendo nulla per affrontarle e portare quella ventata di reale cambiamento che da molti si auspicava sarebbe stata una salutare reazione alla crisi del Covid-19.

Tra le occasioni di reale cambiamento che stiamo perdendo richiamiamo qui la farraginosità della nostra amministrazione e la contabilità pubblica (i ritardati rimborsi alle imprese rammentati dal presidente di Confindustria sono dovuti a questi due nodi).

La farraginosità della nostra amministrazione sarebbe dovuta emergere nella sua reale portata in occasione del telelavoro cui i nostri pubblici dipendenti si son visti costretti. Qui non ci riferiamo tanto al fatto che, per realizzare il telelavoro, bisogna che tutta la documentazione amministrativa sia informatizzata e che esistano reti in grado di sopportare un traffico di dati pesanti quale quello determinato da un telelavoro molto esteso. Di fatto i nostri pubblici dipendenti si sono visti costretti a “passare dall’ufficio” per fotocopiare i documenti cartacei su cui poi hanno lavorato da casa. Spesso si son trovati nell’impossibilità di lavorare perché la rete non reggeva il sovraccarico. Qui si vuole richiamare il fatto che, per poter essere realizzato, il telelavoro richiede che, a monte, il lavoro sia organizzato in maniera completamente diversa da come è organizzato oggi. È abbastanza intuitivo che debbano essere cambiati i meccanismi di controllo. Oggi i meccanismi di controllo sono basati pressoché esclusivamente sul controllo della presenza sul posto di lavoro. Col telelavoro si dovrà passare ad un controllo basato sul risultato. Tutta la filosofia dei tornelli di Renato Brunetta, poi ripresi dal ministro Giulia Bongiorno, va rivista. Si dovrà passare dal controllo del tempo del dipendente e al controllo sul risultato. Questo aspetto sembra essere completamente sfuggito alle nostre amministrazioni e ai nostri sindacati.

Il telelavoro non richiede solo una modifica dei meccanismi di controllo. Esso richiede, ancora più a monte, una modifica dell’intera organizzazione del lavoro. Si tratta di passare da una organizzazione del lavoro basata sul coordinamento gerarchico ad una organizzazione del lavoro basata sul coordinamento incentrato sui processi. Si tratta di passare da una filosofia del tipo “chi mi può/deve aiutare a svolgere questa attività” per poi lasciare questi individui a svolgere, sotto uno stretto e defatigante controllo, le attività necessarie, ad una filosofia del tipo, “cosa bisogna fare” per poi individuare in un secondo momento chi dovrà fare le varie cose. Nel primo modello tutte le attività realizzate devono essere supervisionate e approvate dal dirigente. Nel secondo modello il dirigente decide come le varie tipologie di problematiche vadano affrontate e poi lascia i collaboratori fare quello che ha deciso. In questo caso i collaboratori ricorrono al dirigente solo quando si verificano casi imprevisti. Nel settanta 70% e magari nell’ 80% dei casi il dirigente non deve intervenire. Nel primo modello, quello oggi in vigore, il dirigente deve decidere ogni singolo caso. Il collaboratore si limita ad istruire la pratica (i funzionari sono, guarda caso, inquadrati come “istruttori amministrativi”). Nel secondo modello il dirigente decide come trattare intere tipologie di casi e non interviene sulla singola pratica. Nel primo modello ogni atto deve essere firmato dal dirigente che, vista la mole di lavoro, si trova tra due alternative: o legge tutti gli atti che gli vengono sottoposti dall’istruttore amministrativo e, in questo modo, accumula ritardi biblici; o appone delle firme inconsapevoli.

La nostra amministrazione è ancora imbrigliata nel modello che richiede una firma del dirigente ad ogni piè sospinto. Ci vuol poco a capire che questo modo di lavorare non è compatibile, non solo con il telelavoro, ma con la digitalizzazione in generale.

Eppure negli anni ’80 dello scorso secolo si era iniziato un processo di modernizzazione del modello amministrativo di tutto rispetto. Il cambiamento, epocale, era stato introdotto dall’ingegner Billia, prima all’Inps e poi all’Inail. Qui si erano codificati i processi di modo che la firma potesse essere apposta da un qualunque funzionario di sportello. In questo modo è stato poi possibile informatizzare l’intero processo lavorativo.

Questo modello virtuoso (replicato subito dopo dallo stesso ing. Billia all’Inail), anziché diventare il trampolino di lancio per una generale modernizzazione della nostra amministrazione, è stato piano piano smantellato dalla resistenza dei nostri amministrativisti e dalla loro cultura che ignora gli aspetti relativi all’organizzazione amministrativa. Il primo colpo a questa riforma virtuosa è stato dato dalle legge 241 del 1990 (la legge nota come la legge sulla trasparenza amministrativa) che al comma 1 dell’art. 5 distingue tra responsabile di procedimento e responsabile di provvedimento. Il responsabile di procedimento è sostanzialmente il tradizionale istruttore amministrativo che istruisce la pratica e prepara il testo dell’atto/provvedimento. Atto/provvedimento che dovrà essere firmato da un dirigente. Dirigente che diventa un collo di bottiglia ed il principale ostacolo alla digitalizzazione dell’amministrazione e, quindi, al telelavoro.

Un ulteriore colpo al modello Inps/Inail è stato poi dato dalla riforma Cassese introdotta con il Dlgs 29 del 1993 (a seguito della legge 421 del 1992). Con tale riforma si smantella il sistema di formazione dei quadri dell’Inps e dell’Inail. L’ingegner Billia aveva concepito un periodo di “induction training” per i neoassunti, training in cui il neoassunto veniva familiarizzato con le procedure che avrebbe poi dovuto applicare, superando in questo modo il metodo informale della formazione on the job, secondo il quale il nostro funzionario impara il “saper fare” grazie ai colleghi che glielo insegnano. Questo metodo della formazione on the job, non solo è costosissimo (il neoassunto per diversi mesi è pagato ma non sa lavorare e i suoi colleghi sono nel contempo pagati ma non possono lavorare perché devono insegnare al neoassunto cosa fare) ma crea isole di prassi amministrative che non dialogano tra di loro determinando una parcellizzazione patologica dell’azione amministrativa. Orbene l’induction training dell’ingegner Billia è stato sostituito dai percorsi di formazione presso la Scuola Nazionale di Amministrazione (Sna) dove, anziché il “saper fare”, si ripetono corsi di tipo universitario dedicati al “sapere” teorico.

Non c’è da meravigliarsi se l’Inps non sia oggi in grado di erogare la cassa integrazione in deroga e gli assegni di sostegno a chi è stato costretto al lockdown. Ci si dovrebbe piuttosto chiedere che senso ha mettere al vertice dell’Inps, non tanto personaggi esperti in management di strutture pubbliche (come era l’ing. Billia), ma esperti in sistemi pensionistici (come il prof. Boeri) o in economia dell’esclusione/inclusione (come il prof. Tridico).

Sembra purtroppo che si stia anche perdendo l’occasione di modernizzare la nostra contabilità pubblica. La nostra contabilità pubblica, detto in soldoni, ha due gravi pecche. Da una parte è una contabilità giuridica (di competenza) che registra cosa deve essere pagato e cosa deve essere riscosso e non registra cosa viene pagato e cosa viene effettivamente riscosso (come farebbe una sana contabilità di cassa). Da una seconda parte definisce le “previsioni di entrata “ come accertamento. Dietro a questo ambiguo termine si nasconde il fatto che le cifre per cui si è prevista l’entrata possono essere spese anche se non sono state riscosse. Immaginiamo quanti soldoni avrebbe diritto lo Stato di riscuotere da imprese che falliscono. Questa peculiarità, non solo, determina i nati ritardati pagamenti della nostra amministrazione ma svia la ricerca effettiva dell’evasione fiscale, orientandola non sui reali flussi finanziari ma su accertamenti ritualistici molto spesso improbabili.

Non sembra che la crisi determinata dal lockdown del Covid-19 stia focalizzando l’attenzione sulle cause reali delle disfunzioni delle nostre istituzioni.



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