Skip to main content

Distruggere i monumenti per delegittimare le nazioni. L’analisi di Capozzi

Il movimento sedicente “antirazzista” inscenato da alcune sigle dell’estremismo di sinistra statunitense (Black Lives Matter e Antifa) – e prontamente esportato nelle altre capitali occidentali da un'”internazionale” ribellista sostenuta da un incessante “tam tam” mediatico – è  l’ennesimo episodio di un costante attacco frontale lanciato dalle élites progressiste alla democrazia occidentale in nome dell’ideologia “politicamente corretta”, che si articola oggi in tre grandi filoni: teoria gender, “gretismo” (ambientalismo antiumanista) e multiculturalismo immigrazionista.

Le minoranze sociali che in Occidente promuovono con ogni mezzo l’agenda politicalcorrettista, disponendo di enormi mezzi finanziari e di un  dominio straripante nella rete della comunicazione digitale, appartengono all’alta borghesia hi tech, finanziaria, burocratica, e controllano largamente quella intellettuale-accademica. Esse hanno come obiettivo una grande buro-tecnocrazia globale, in cui il rigido controllo sociale (assicurato dal connubio tra “catechismo” civile, pieno dominio della tecnica sulla “nuda vita” e pubblici sussidi a ceti marginali o improduttivi) si accoppi ad una totale libertà di azione dei grandi capitali di rendita, spesso concentrati in grandi organizzazioni “filantropiche”. Un mondo “fluido” in cui si possano spostare facilmente risorse economiche e manodopera semi-schiavistica a basso costo, e nel contempo sperimentare soluzioni sempre più audaci di gerarchizzazione biopolitica in senso “trans-umano” e “post-umano” (abolizione della famiglia; selezione darwiniana di massa attraverso aborto, manipolazione genetica ed eutanasia; precarizzazione lavorativa ed esistenziale; trasformazione delle élites in minoranze di “highlanders” bio-tecnologici in grado di auto-perpetuarsi).

Per perseguire i suoi obiettivi, questa potente ultra-borghesia ha bisogno di abbattere soprattutto due pericolosi avversari: 1) la sovranità popolare, in cui si esprimono sentimenti, interessi e aspirazioni della “gente comune”, i ceti medi e le classi lavoratrici desiderosi di stabilità, crescita economica, sicurezza; 2) gli Stati nazionali, che rappresentano ancora l’unica cornice in cui l’opinione della “gente comune” può trovare rispondenza in governi rappresentativi.

Per questo i massimi ostacoli alla sua agenda, e dunque i bersagli polemici principali della propaganda da essa foraggiata, sono i leader politici occidentali che rivendicano nei loro Paesi – contro gli “automatismi” globalisti – la titolarità della decisione politica, la priorità dell’interesse nazionale, la difesa del lavoro, della famiglia, dei ceti sociali produttivi (industria, terziario, servizi): oggi in primo luogo Donald Trump, e con lui tutti i maggiori esponenti del conservatorismo liberale o nazional-popolare di qua e di là dell’Atlantico (Bolsonaro, Johnson, Orban, in parte Putin, e molti altri).

L’offensiva contro questi ultimi viene condotta attraverso quella che il politologo Lorenzo Castellani ha recentemente definito un’alleanza sociale tra “alto” e “basso” (ceti della rendita e ceti marginali improduttivi) che schiaccia tutto ciò che c’è nel mezzo, ed esasperando la tensione sociale spera di spodestare i leader rappresentativi sull’onda di sollevazioni violente che li delegittimino, facendoli apparire imbelli o autoritari. Gli alto-borghesi ideologizzati eccitano, a tale scopo, la rivolta violenta di giovani disorientati e sottoproletariato metropolitano disoccupato o colluso con l’illegalità, lasciando intendere loro che, sconfitti i loro comuni nemici, i ceti marginali potranno vivere di sussidi.

I temi delle ribellioni estremiste sono costruiti in laboratorio secondo la “precettistica” del progressismo ultra-borghese, enfatizzandoli esasperatamente come emergenze e priorità mondiali: il cambiamento climatico, l'”omofobia”, e ora (come già altre volte) il razzismo. Temi  considerati marginali o inesistenti dal buonsenso popolare e dalla grande maggioranza delle opinioni pubbliche, ma pensati specificamente per indurre nel “cittadino medio” un oscuro senso di colpa, e dipingere come mostri anti-umani i governanti che si mostrino ad essi poco sensibili.

Nel caso della rivolta transnazionale organizzata in questi giorni approfittando dell’uccisione di George Floyd a Minneapolis, il legame strettissimo tra progressismo politicalcorrettista e tentativo di destabilizzare le democrazia appare evidente soprattutto nella ripresa di un classico, già sperimentato motivo proprio di quel blocco ideologico: il processo alla storia delle nazioni, tradotto nell’iconoclasta distruzione di monumenti e simboli tradizionali in nome del “risarcimento” di ingiustizie “sistemiche”, attuata con metodi che ricordano da vicino l’operato del “ministero della verità” nel regime del “Grande Fratello” descritto da George Orwell in 1984.

Se la sovranità di un popolo è fondata nella sua identità, nella sua percezione del proprio presente come frutto organico di un percorso che affonda radici profonde nel passato e sfocia nei regimi occidentali di libertà e uguaglianza, la censura e la criminalizzazione del passato operata dai professionisti della rivoluzione globalista ultra-borghese è funzionale appunto a distruggere quella continuità, delegittimando radicalmente nazioni e istituzioni fino alla loro totale disgregazione. Per poi riempire il vuoto così generato con comitati “tecnici” transnazionali da essi controllati e con la “dottrina” ufficiale capillarmente veicolata dalla rete dei mainstream media analogici e digitali, resa ancora più pervasiva dalla “profilazione” fondata sul controllo dei “big data”.



×

Iscriviti alla newsletter