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Dal piano Colao agli Stati generali, se la politica è nel pantano. Parla Mannino

Le chiama “forze politiche a-rappresentative”, Calogero Mannino. E non fa sconti a nessuno, l’ex ministro e volto storico della Dc. Dal Carroccio al Nazareno, la politica vive una fase di stallo, anche perché il luogo preposto a farla, il Parlamento, è stato ormai svuotato delle sue funzioni, dice a Formiche.net. Così il dibattito pubblico si riduce a una sola esigenza: affermare di esistere. È l’esigenza che persegue, con abilità e tattica non comuni, il presidente Giuseppe Conte.

Mannino, questa settimana si decide il futuro dell’economia italiana, a Villa Pamphili.

Esatto, a Villa Pamphili, non in Parlamento, che non da ieri, ma dalla crisi del 2008 è stato deistituzionalizzato. Ormai è una camera di ultima istanza per l’approvazione formale di testi legislativi. È il segno clamoroso della crisi istituzionale e politica del Paese.

Cioè?

Non ci sono più partiti capaci di rappresentare gli interessi della società. Non mitizzo la Prima Repubblica, ma è oggettivo che all’epoca i partiti incanalavano la rappresentanza, non solo l’opposizione o la protesta.

Il Covid-19 ha accelerato questo processo?

Con il Covid-19 abbiamo assistito a un presidente del Consiglio che si è asserragliato nel suo caravan, con forme di decretazione puramente amministrativa, laddove l’urgenza dovrebbe essere disciplinata dal decreto-legge. Lì rinchiuso, Conte non ha trovato un ordinato confronto con le regioni. Anzi la crisi del Covid-19 ha drammaticamente messo a nudo il problema del rapporto Stato-regioni.

L’Ue però ha battuto un colpo. I fondi del Recovery Fund sono una via di uscita, o no?

Certo, purché realizziamo che non sono incondizionati. Accanto alla sovranità monetaria, già trasferita con l’euro, abbiamo ceduto la sovranità della politica economica. L’Europa ci sta dicendo: prendi i soldi se fai quello che è utile anche a noi.

Meglio che non averli del tutto, non crede?

Su questo siamo d’accordo. L’Europa, o meglio la Germania, si è dimostrata assertiva. Ha capito che quella in corso è una crisi geopolitica, prima ancora che economica. C’è un’Europa che affronta di petto la crisi, che non vuole abbandonare gli Stati Uniti per la Cina.

E l’Italia?

Non è chiaro se è parte di questa Europa. Siamo sicuramente distanti anni luce da quando un presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, inviava una spedizione aerea a supporto degli americani. Non lo faceva da servo, si rendeva conto che siamo legati da un cordone ombelicale a Washington DC.

Torniamo al governo. Che bilancio fare di questi nove mesi?

È il governo degli arrangiamenti possibili. Il governo che si è voluto ad ogni costo pur di fermare la Lega. Per soddisfare un interesse esterno, più franco-tedesco che americano. C’erano delle ragioni per la sua nascita. La Lega non aveva sciolto molti nodi, a partire dall’appartenenza all’euro e all’Europa. E soprattutto aveva un grande deficit: non rappresenta gli interessi forti della parte forte del Paese, che guardano al Pd.

E il premier Conte come si è mosso?

Egregiamente. Un interprete e un protagonista insospettabile. Vedo fioccare critiche su di lui, ma gli va riconosciuta una grande abilità. Tiene in piedi il governo. Tra questo e governare, ovviamente, ne passa. Conte ha una sola, vera preoccupazione: esserci, esistere. Per questo deve continuamente far capire che, senza di lui, non esiste questa maggioranza.

Cosa si aspetta dagli Stati Generali?

Non molto. Gli Stati generali sono una rassegna del piano che ha preparato Colao. Il documento che ha diffuso ieri ha già in seno tutto ciò che Bruxelles apprezzerebbe. Il governo non può che prenderne atto. Quel programma non ha bisogno dell’approvazione dei partiti, né del confronto con l’opposizione.

In tanti, anche nella maggioranza, non sono entusiasti del piano.

Certo che non sono felici. Sono stati svuotati della loro funzione. I governi deboli o portano il Paese allo sfascio totale o trovano un ombrello. L’ombrello oggi è l’Europa. Oggi questo è un governo amministrativo, non politico. Lo dimostra anche il dibattito pubblico. Un tempo in tv si assisteva ai grandi dibattiti sul Paese, le persone potevano capire che il Parlamento discuteva di cose serie. Oggi le tv, tutte lottizzate, non manifestano un dibattito politico, solo un confronto polemico.

Zingaretti ha parlato di svolta. Quale?

Non l’ha fatta lui con il governo con il M5S? Una svolta ci sarebbe stata se avesse avuto il coraggio di fare le elezioni a settembre o ottobre. Una forza politica si definisce quando passa attraverso il fuoco elettorale. Ha messo in piedi una maggioranza trasformistica, che svolta vuole dare? Prende semplicemente atto che il Pd non conta molto, perché non conta il governo. Quando i socialisti sono entrati nel governo di centrosinistra contavano perché contava il governo di Moro. Vale lo stesso oggi, a parti inverse.

D’altro canto i Cinque Stelle sembrano aver ritrovato una loro vitalità.

È destinata a rimanere all’interno del Movimento. Serve solo a togliere dal cervello di Conte di fare un suo partito. Grillo arriverà presto a Roma e metterà tutti insieme, tenendo dentro anche l’anarchico Di Battista.

Mannino, sul lato del centrodestra c’è più vitalità?

C’è una vitalità tattica di Berlusconi. In contrasto alle proprie origini, certo. Vuole usare un vecchio strumento politico: valere da una parte e dall’altra. Ma almeno vale. Nessun centrodestra fa la maggioranza senza lui, e non c’è questa maggioranza senza Berlusconi. In poche parole, è riuscito lì dove ha fallito Renzi. Il maestro ha superato l’allievo, di nuovo.


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