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L’anno zero per la parata del 2 giugno. L’opinione del gen. Bertolini

La celebrazione del 2 giugno, nella ricorrenza del referendum che sancì tre quarti di secolo fa la fine del Regno d’Italia e l’inizio di una lunga era repubblicana per il nostro Paese, non è mai stata molto amata da una parte non indifferente della nostra classe politica. A differenza dell’altra “festa comandata” del 25 aprile, infatti, non si è mai trasformata in un esercizio di discriminazione tra italiani virtuosi e reprobi, vincitori e vinti, anche se il 2 giugno del 1946 fu caratterizzato da una non indifferente spaccatura di quella che oggi definiremmo l’opinione pubblica di allora.

Se è vero che 12 milioni circa di elettori scelsero la Repubblica, era infatti altrettanto vero che solo due milioni in meno scelsero la monarchia e questi ultimi lamentarono per anni, a vuoto e inutilmente, l’interferenza di brogli che avrebbero drogato il risultato a svantaggio del Re. Questo, da parte sua, con grande senso della responsabilità aveva invece preso atto del risultato e si era ritirato a Cascais impedendo col suo ritiro che i disordini dei giorni successivi degenerassero in qualcosa di peggiore. In quell’occasione si verificò anche un’altra divisione, tra un’Italia centro-settentrionale più convintamente repubblicana, anche grazie alla maggior presenza di quelle forze politiche che rivendicavano un ruolo attivo nella “liberazione”, e il Meridione. Questo, infatti, si confermò sostanzialmente monarchico, forse anche perché risparmiato dalla lunga guerra civile che soprattutto a nord della Linea gotica aveva diviso gli animi e enfatizzato la repulsione per la monarchia e il biasimo per quella che era considerata la fuga del Re nelle giornate dell’8 settembre del ’43. Giusto o sbagliato che fosse, questa era la sensazione generalizzata, infatti.

Insomma, la ricorrenza aveva tutte le caratteristiche per confermarsi nello spirito di contrapposizione tipico di una larga fetta della classe politica affermatasi nell’immediato dopoguerra, specializzata nell’arte della costante discriminazione tra buoni e non buoni, anche se all’inizio si dimostrò pragmatica e capace di fare sintesi con gli ex avversari fascisti che riammise in larga misura  ai loro posti nelle Forze armate e nella Pubblica amministrazione.

Eppure, il 2 giugno sfuggì quasi subito a un destino di triste manifestazione divisiva proprio perché ricordato in forma solenne e nel luogo simbolo dell’unità nazionale, la via dei Fori Imperiali e l’Altare della Patria che sintetizzano con le loro rovine e il sacello del Milite Ignoto, i più importanti motivi identitari del nostro popolo.

Soprattutto, sfuggì a quel destino divisivo perché solennizzato con una sfilata militare che riappacificava la nostra opinione pubblica col simbolo e presidio principale e universalmente riconosciuto della nostra indipendenza, della nostra sovranità di Paese tornato padrone del proprio destino: le Forze armate. C’era, insomma, voglia di riscatto e di un ritorno di orgoglio dopo le umiliazioni di una guerra persa malamente e cosa di meglio di una formale esibizione di forza militare proprio nel fulcro di quello che era universalmente riconosciuto come il luogo di nascita del più seducente Impero di tutti i tempi? Niente di strano, quindi, che la ricorrenza richiamasse decine di migliaia di cittadini di tutti gli orientamenti politici ad assieparsi nel centro di Roma, ad agitare le bandierine tricolori distribuite nell’occasione, mentre altri milioni assistevano alla trasmissione in diretta della sfilata dalla proprie case.

Insomma, una festa che metteva d’accordo tutti, anche perché con questa sua connotazione si prestava ad essere letta da varie prospettive: quella politica e militante con gli onori al presidente della Repubblica vincitore dell’evento ricordato, quella storica e morale con l’omaggio al protagonista della nostra unità, il Milite Ignoto, e quella militare con l’esibizione delle unità che con lo sferragliare dei cingoli dei mezzi pesanti tra il Colosseo e Piazza Venezia tranquillizzava sui dubbi circa la sopravvivenza di uno strumento e di uno spirito militare a disposizione della nostra libertà.

Ed era senz’altro quest’utimo aspetto, che trasformava la Festa della Repubblica quasi nella Festa delle Forze armate dopo che era stato derubricato a festa minore il 4 novembre, a infastidire maggiormente taluni, che temevano la sordina alla liturgia di una “memoria” che si vedeva sempre meno condivisa man mano che le generazioni passavano.

Insomma, l’esibizione militare per l’unico Stato al mondo che nella sua costituzione aveva sentito l’esigenza di inventare il “ripudio della guerra” sembrava decisamente stonata e distraeva dal motivo per il quale ci si ritrovava col vestito della domenica tra i pennacchi dei corazzieri e gli ottoni di tutte le fanfare. Si iniziò a “porre rimedio” a questo sbilanciamento cerimoniale negli anni ’70, interrompendo lo sfilamento dei mezzi corazzati con la scusa della stabilità dei monumenti del sottostante Foro. Con il simbolo della forza pura richiamato dall’acciaio cingolato e dai cannoni venne così escluso uno dei principali motivi di attrazione, soprattutto per i più piccoli, compensato però dalla perdurante presenza di migliaia di uomini in uniforme e con lo schioppo che, al passo di marcia, riuscivano comunque a solleticare orgoglio e coltivare consolanti allusioni all’indipendenza. Tutti contenti, a destra e a sinistra, quindi.

Ma venne poi il tempo delle prime crisi economiche e della crescita dell’insoddisfazione di una larga fetta politica per una sovranità ritenuta insufficiente, una palla al piede per il nostro cosmopolitismo (o provincialismo?) genetico. E si arrivò a una sostanziale riduzione delle unità militari impegnate, mentre aumentava progressivamente la presenza di altri attori, dai Vigili urbani, alle Misericordie e alle organizzazioni più varie del volontariato, che smorzavano l’impatto militare puro con un effetto non indifferente sul pubblico, che si addensava sempre più – come in una ritirata strategica – sotto la ridotta della Tribuna presidenziale. La botta finale alla marzialità della manifestazione l’ha poi data l’introduzione del mucchio dei sindaci in testa allo sfilamento, con le loro “forme” così poco coerenti con la marzalità delle unità che li avrebbero seguiti; quasi la sanzione definitiva e solenne dell’esaurirsi di una parabola che pare arrivata allo zero con la pandemia del Covid-19, che quest’anno ha costretto a rinunciare del tutto allo sfilamento, riducendo la celebrazione ad una mesta deposizione di corona di alloro al Sacello del Milite Ignoto, senza popolo.

Senza popolo, appunto, senza passione e senza grida entusiastiche di bambini (ma sono un articolo che abbiamo dimenticato da anni, i bambini) mentre si mantiene foltissima la presenza di autorità senza capacità di attrazione, tutte distanziate socialmente (almeno un metro) e dotate di apposite mascherine per le vie aeree (i più attrezzati con le mitiche FFP2). Il figlio di Maria Bergamas osserva sconcertato.

È a questa mancanza di capacità di attrazione che si dovrà porre rimedio con l’attuale fase 2, quella nella quale dal “lock down” (chiusura, per gli italofoni) si dovrà prendere la rincorsa per la ripartenza, comunque decideranno di definirla con il termine inglese che verrà introdotto dal prossimo Dpcm. Sarebbe bello credere che nella fase 3 e in quelle a seguire ci si renderà conto che anche gli ottoni, i pennacchi, i carri, i cavalli e le unità in marcia possono avere un ruolo importante in tale sforzo.

Anzi, che senza di loro ogni sforzo è vano.


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