“Il compito continua a essere immenso […] perché stiamo cominciando a capire che il piano di Dio è stato anche un piano per l’universo e non solo per la famiglia umana.” È un testo scritto per l’oggi quello pubblicato in questi giorni ma scritto diversi anni fa da padre Adolfo Nicolás, che ha guidato a lungo la Compagnia di Gesù, fino a quando si ritirò, per sua libera scelta, compiuti gli ottant’anni, alla fine del 2016. Uomo di ampie vedute, coraggioso, nel 2008 affermò che la Teologia della Liberazione “è un risposta coraggiosa e creativa a una situazione di ingiustizia insopportabile in America Latina. Come ogni teologia, ha bisogno di anni per maturare. È un peccato che non le sia stata data fiducia e che le si siano tarpate le ali molto presto, prima che imparasse a volare. Bisogna darle tempo”.
Non credo si sia fatto amico i depositari della”ortodossia” di alcuni, ma neanche gli intransigenti della contestazione, ai quali non bastò, ovviamente: ma la visione e il coraggio non dovevano mancare a padre Nicolás, come conferma anche la posizione che espresse sulla Spagna del Psoe di González, accusato di laicismo: “Abituato al clima di riposante laicità che si respira in Giappone, dove ho vissuto molti anni, trovo il governo socialista, mi si perdoni, immaturo, nel senso che i problemi dell’occupazione, dell’educazione e dell’immigrazione sono talmente grandi che mi sembra si stia perdendo molto tempo nelle relazioni con la Chiesa”. Sembra questa la riflessione sulla quale certa politica europea ha perso molto tempo.
In quegli anni, apprendiamo ora, padre Nicolás aveva abbozzato anche una lettera ai gesuiti, che esce postuma grazie a La Civiltà Cattolica. È un testo complesso e riguarda sfide e problematiche per chi scelga la vita consacrata, ma i punti che pone impongono a mio avviso di leggerlo, senza forzarlo, tentando anche di andare oltre i confini della vita consacrata, perché ci sono intuizioni che riguardano le nostre società. Forse, seguendo uno dei possibili sensi di un proverbio orientale, potremmo tutti convenire sul fatto che “l’occhio vede soltanto la sabbia, ma il cuore illuminato è in grado di vedere la fine del deserto e la terra fertile”.
Padre Adolfo Nicolás parte da un dato, la forza di attrazione della testimonianza. Non dovrebbe esserlo, ma già qui c’è una notizia, visto che non ritengo che tutti gli ambienti ecclesiali si adeguino al fatto che è l’attrazione la chiave della testimonianza, in questo caso di fede. Se è così allora potrebbe essere questa la causa della conseguenza da cui muove il testo di padre Nicolás: “Non è necessaria un’intelligenza straordinaria o una profonda analisi per rendersi conto che ciò che chiamiamo ‘vita religiosa’ ha perso qualcosa del suo impatto nella Chiesa e fuori delle sue mura”. L’impatto di una testimonianza che opera per attrazione si sarebbe ridotto per alcune distrazioni dal suo centro.
Questo discorso mi ha fatto ricordare di mia madre, quando prima di andarsi a coricare veniva a rimboccarmi le coperte che io già dormivo. Quel gesto gratuito non voleva obbligarmi ad amarla, io avrei dovuto già essere addormentato, né obbligarmi a ringraziarla o ad imitarla. Padre Nicolás, parlando di sé e non criticando nessuno, avvia il suo viaggio nelle distrazioni che possono influire negativamente, far sbagliare, ingannare, facendomi pensare a una madre: lei se si distrae non va a rimboccare le coperte al figlio prima di addormentarsi, magari perché si concentra in una discussione con il marito sui compagni di giochi da prediligere. Ma se non si distrae dimostra che ciò conta per lei è quel che dà. Questo mi sembra il senso di un’espressione centrale per i consacrati e le consacrate, ma un po’ stucchevole se non tradotta: l’amore come dono.
Mi ha colpito che padre Nicolás abbia scelto il vocabolo “distrazioni”. Lo spiega affermando di essersi scoperto, anni prima, distratto nella preghiera: ero distratto nella vita, osserva, potevo non esserlo nella preghiera? Ovviamente parla da uomo che ha fatto una scelta di vita consacrata e si rivolge ai suoi confratelli. Abbiamo un centro se abbiamo scelto la vita consacrata e se non siamo “centrati”, cioè attenti al centro scelto, vuol dire che ci stiamo distraendo. Ma la distrazione dal senso della nostra vita è una categoria che ognuno di noi può comprendere, anche pensando alla sua esistenza. Quindi possiamo seguire il ragionamento sulle distrazioni possibili. “Distrazioni” è parola importante e da capire: “nessuno mi pensa”, è un pensiero che tormenta tanti… È un tormento che ci distrae a tal punto da lasciarci poco tempo per pensare a qualcuno.
Il primo esempio citato è nel raggruppamento: padre Nicolás fa alcuni esempi, tra i quali colpiscono il gruppo etnico e quello gruppo culturale. Questo è un primo elemento che fa riflettere per i consacrati, ma anche oltre i confini della vita religiosa. “Le cause” che ci riguardano infatti si limitano sempre di più e anche le affinità acquisiscono sempre più peso. È come se il nostro raggio di azione desiderabile si riducesse. È un problema? Capiamo meglio arrivando al secondo esempio, sorprendente per la sua valenza: “Un’altra tentazione ‘facile’ è l’identificazione emozionale con gruppi che soffrono di qualche forma di complesso. Penso in questo momento a gruppi che in passato hanno sofferto oppressione o ingiustizia e ora usano questa esperienza veramente cattiva come giustificazione per rivendicare uno stato di eterna ‘vittima’. A volte gruppi che sono stati marginalizzati nel passato possono usare questo come leva per vivere d’ora in poi in una condizione di privilegio”. Si può facilmente pensare a gruppi o comunità che vivono o hanno vissuto l’oppressione. Siccome nulla è più difficile che liberarsi dal trauma, si avverte come conseguenza “strutturale” della nostra vita un vincolo chiuso: dunque bisogna restare un gruppo chiuso, sebbene costituisca in sé un’esclusione… E questo rende impossibile la fiducia nella vitalità anche creativa di nuovi legami. È così che denunciare la propria condizione di protetti, cioè di inferiori, porta a cercare un potere che ci protegga maggiormente. Seguire queste dinamiche con “identificazione passionale” può involontariamente aggravarle.
Ma non c’è solo “identificazione passionale” a causare questo. È sempre più evidente, allargando il discorso, una visione in bianco e nero del mondo. Un punto oggi evidente ma da pochi trattato: “ Abbiamo ‘vita dura’ con le ambiguità e le aree grigie della realtà. Essendo preparati per un impegno totale, proiettiamo facilmente tutta la verità su ogni impegno al quale ci sentiamo chiamati e diventiamo ciechi davanti alle sfumature, alle ambiguità e anche alle contraddizioni di una visione del mondo in ‘bianco o nero'”: Una visione del mondo in bianco e nero…
Problema che padre Nicolás sottolinea osservando un ambiente come quello della Compagnia di Gesù, ma partendo da quell’impegno totale che riguarda o ha riguardato tante idealità e oggi tante dis-idealità. I nostri nuovi “impegni totali” infatti sembrano “denunce totali”. In un mondo dove sono tutti corrotti occorre spazzare via tutti, per esempio… La mediazione è un inganno, il conflitto è tra Bene e Male… Un problema non è solo dell’oggi, ovviamente, ma nel nostro presente sta acquisendo nuove dimensioni che coinvolgono anche l’area del disincanto. Questo disincanto da tanti notato potrebbe portarci facilmente a un nuovo nichilismo. La vera sfida al cristianesimo nella contemporaneità, a mio avviso, sta qui, nel nuovo manicheismo.
Questa difficoltà con i grigi, con le ambiguità della vita, che poi sono quelle cose che la rendono viva, non si può leggere senza il passaggio successivo, nel quale padre Nicolás mette in guardia i suoli gesuiti dal perfezionismo, dal desiderio di obbedienza perfetta a Dio. “S. Paolo, con i primi cristiani, reagendo agli eccessi particolaristici ed evidenti di alcuni gruppi profondamente impegnati, l’hanno chiamato ‘fariseismo’. L’abbiamo incontrato e abbiamo ‘giocherellato’ con esso attraverso gli anni; e abbiamo sempre sentito che non era un problema soltanto per il tempo degli Apostoli, ma che si trattava di una tentazione, una reale distrazione, per ogni tempo”. La predicazione di Papa Francesco sul fariseismo, successiva a questo testo, è stata ampia e ci aiuta a cogliere tutto il valore di un inciso che rimane però centrale nel testo o quanto meno nella mia lettura di esso. Qui infatti si pone la possibilità del rigore vissuto come unica salvezza da lassismi di ogni tipo. Può anche trattarsi di un rigore per resistere, destinato però a bearsi della sua inflessibilità, della sua assolutezza. Nella vita consacrata è un pericolo evidente, nel nome del Padre qualcuno può cancellare la sua misericordia costitutiva. Ma allargando lo sguardo nella società odierna vediamo i nuovi puri, “professionisti” magari delle scelte più belle, che possono essere la solidarietà, o il pacifismo, o l’anticorruzione. I grigi della vita ci sono ovunque, anche nelle strade della pace, che non si costruiscono urlando dai salotti romani. Anzi, da quei salotti, i puri più puri della solidarietà a volte sembrano dire: “soffrite di più, sarò più solidale”.
Questo passaggio del testo di padre Nicolás può farci vedere altri modi di ”decentrarsi”, visto che il perfezionismo obbedisce alla forma e dimentica la sostanza, sempre. Un esempio? Si invoca la certezza della pena ma non si pensa all’importanza del pentimento. La sostanza, il pentimento, non conta: è importante la forma, cioè l’espiazione della condanna. Padre Nicolás ovviamente non parla di questo, ma le distrazioni che vede conducono a orizzonti ristretti, inclini a ridurre anche i colori, come è naturale per i perfezionisti il cui universo è fatto di “perfetto” o “sbagliato”, senza gradazioni. Questo perfezionismo è inevitabile che assorba tante energie: “Siamo distratti, paradossalmente, dal nostro stesso impulso verso la perfezione”.
Sono queste le “distrazioni” che maggiormente mi hanno colpito in questo testo, le altre, a cominciare dall’Ego, sono ugualmente importanti, certamente. Ma per terminare vorrei citare il punto più difficile: “Noi, persone consacrate, abbiamo preso un impegno di trovare la volontà di Dio insieme, come un corpo, come una comunità di fede, di missione, di amore. Qui troviamo il vero senso dell’obbedienza, questo voto dei religiosi spesso mal compreso. La cattiva notizia è che questo è molto difficile, particolarmente per i più visionari, i più intelligenti, i più dedicati a una causa importante o a un’altra. È sempre molto più facile andare da soli, secondo un’ispirazione personale (soprattutto mentale o emozionale). Abbastanza stranamente è più facile considerare se stesso come un profeta che discernere con altri e dover camminare umilmente con le debolezze del nostro pensiero o delle nostre proposte. Possiamo diventare profeti al di fuori della comunità, finché coloro che hanno autorità vogliono imporci il silenzio, e allora corriamo alla comunità per cercare protezione, anche a volte lamentando che la comunità o i suoi leader mancano di comprensione, coraggio, visione e sostegno. Non si tratta di volontà malata consapevole. Ci sono molti buoni desideri, molta visione, grande determinazione a fare la differenza… ma non di meno noi siamo distratti.” Questo ragionamento appare molto interno alla vita comunitaria dei consacrati, ma collegato a quello su perfezionismo può riportarci a cogliere che la tendenza sempre più diffusa è ritenere il compromesso un disvalore. Il compromesso non è più fatica, perché non c’è nulla da capire né il desiderio di farsi capire: l’arte più nobile e che in certo senso incarna la vita, visto che il matrimonio prima che ogni altra cosa è un compromesso, vista così è “inciucio”. Dunque l’impressione che si ha da questa lettura è che padre Nicolás cercasse di indicare alla Compagnia di Gesù la strada per diventare “dono” alle società complesse, affrontando e sciogliendo i nodi che maggiormente le riguardano.