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Caso Palamara, perché il problema non è il Csm. La versione di Pomicino

Palamara sta pagando un prezzo elevato, ma serve la separazione delle carriere. Questa in sintesi la visione della giustizia italiana che Paolo Cirino Pomicino, esponente storico della Democrazia Cristiana, affida a Formiche.net perimetrandola in un più ampio ragionamento su Csm, ruolo inquirente e giudicante, centri di potere e danni per cittadini e Stato.

La crisi che sta investendo la magistratura e i suoi organi associativi e di autogoverno rappresenta una sorpresa?

Assolutamente no, era prevedibile perché il Csm è diventato una sorta di partito politico. Se in un partito le correnti sono necessarie in quanto portatrici di sensibilità diverse all’interno del corpo unitario, diventa difficile in un organo di autogoverno eletto da una platea di magistrati immaginare che vi siano orientamenti politici diversi. Dal 1989, ovvero dall’arrivo del nuovo processo penale, si è iniziato ad avere una modifica di comportamento del Csm con l’egemonia delle correnti: era facile pronosticare che si sarebbe giunti al punto di oggi. Sinceramente mi scandalizzo molto poco.

Per quale ragione?

Le correnti devono avere anche un equilibrio di potere, perché l’organo di autogoverno della magistratura se prevede la presenza di correnti allora prevede anche l’esigenza di manifestare quel potere. Quindi se non si affronterà l’insieme del tema giustizia nel suo complesso, che non è limitato solo all’area del Csm, non se ne uscirà.

La separazione delle carriere è una strada su cui procedere?

C’è una profonda differenza non opinabile, tra i magistrati inquirenti e quelli giudicanti, ma data da un elemento incontrovertibile: negli ultimi 30 anni i magistrati passati alla politica sono tutti pubblici ministeri e non ne ricordo di giudicanti. Chi non ci è riuscito, semplicemente voleva ma non ha potuto. Tutto ciò dimostra che l’attività inquirente ha più il profilo di una avvocatura dello Stato che non quella di un magistrato: tanto è vero che, nonostante l’obbligo di legge per i pm di cercare anche le prove a favore dell’imputato, questa è un’attività da loro molto poco seguita. Per carità, ne ho trovati alcuni che seguivano l’antico obbligo, ma è cosa rara. Non è la mia una critica, ma la dimostrazione che la parte inquirente è totalmente diversa dalla magistratura giudicante.

Per quale motivo?

Perché più permeabile al clima mediatico e all’influenza politica. Inoltre, possono assumere iniziative che alcune volte terrorizzano gli stessi magistrati giudicanti. Non a caso si sono trovate in passato cimici all’interno degli uffici giudiziari senza poter procedere anche contro i magistrati giudicanti. D’altro canto ho letto che sarebbe stato intercettato anche l’ex vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, quando era in carica. Se si è arrivati a questo punto significa che i pm hanno un potere esagerato, senza rendere conto a chicchessia. Inoltre se sbagliano paga lo Stato.

Con quali conseguenze?

Con un rischio relativo alla reputazione delle persone e alla loro libertà. Quindi vedo non l’esigenza di modificare il Csm, che è l’epifenomeno, come sta emergendo dalle vicende relative allo scontro di potere, quanto di riportare la funzione inquirente nel suo alveo normale che è l’avvocatura dello Stato. Il pm deve essere profondamente diverso dal magistrato giudicante. Perché non si trova alcuna dichiarazione di un giudicante? Semplicemente perché parlano con le sentenze, mentre invece numerosissime sono le dichiarazioni dei pubblici ministeri. Mi rendo conto che esiste una parte minoritaria, ma significativa, di pm che fa ciò che sto dicendo, ma la maggioranza probabilmente è legata all’antica sobrietà dei magistrati di una volta.

Chi avrà il coraggio di una riforma del genere?

Credo nessuno. Quando nel 2006 ero di nuovo in Parlamento e c’era il dibattito venuto fuori in seguito con la Legge Severino proposi in un emendamento che erano altresì ineleggibili quanti hanno chiesto ed ottenuto misure cautelari per soggetti dichiarati poi innocenti con sentenze passate in giudicato. La tesi era che se, ad esempio, si dichiaravano ineleggibili e passibili di decadenza dal Parlamento soggetti condannati a una pena di due anni per mancate dichiarazioni di contributi elettorali, non si capisce perché a chi aveva incarcerato un innocente era concesso di tutto.

Come finì quell’emendamento?

Appena lo presentai si bloccò tutto. Quando terminò il mio mandato qualcuno lo ripropose, ma il Parlamento non era nelle condizioni di sostenere una cosa di questo genere. Resta un dato: questa enclave di pubblici ministeri si è lentamente consolidata come enclave di potere di cui nessuno risponde, neanche lo Stato. Se un pm fa un’azione penale che in seguito risulta totalmente sbagliata non accade proprio nulla, può sbagliare senza conseguenze settanta volte sette per dirla come nostro Signore.

Quali i limiti del Csm?

L’autogoverno, così come è fatto, non funziona: dovrebbe essere composto anche da persone che non siano magistrati. L’equilibrio dei poteri va declinato anche all’interno del mondo dei magistrati. I presidenti dell’Anm sono per l’80% delle volte pubblici ministeri. È impressionante. Certamente vi sono pm di grandissima qualità ai quali dobbiamo dare atto, ma ce ne sono altri che creano problemi nell’equilibrio tra poteri.

Michele Vietti, già vicepresidente del Csm, ha aperto sul Foglio alla possibilità di scioglierlo: che ne pensa?

Pannicelli caldi. Perché scioglierlo in questo momento? In fondo Palamara non ne fa parte.

Che idea si è fatto sul caso Palamara?

Sta pagando un prezzo elevato, ciò che ha fatto lui lo fanno tutti, anche senza logiche di potere: si parla, si discute, si trova tra le correnti un punto di contatto in seno agli incarichi da affidare. Cosa ha fatto il Csm perché debba essere sciolto adesso? Niente, a mo giudizio. C’è bisogno di affrontare la riforma nel suo complesso, a cominciare dalla distinzione delle funzioni che tocca anche la permeabilità alla politica e alla comunicazione, i rapporti tra pm e giornalisti. Non può ritenersi il pm un magistrato come quello giudicante: sono avvocati dello Stato. La separazione delle carriere non è un capriccio di qualcuno, ma si è ormai consolidata in maniera talmente netta la distinzione delle permeabilità alle influenze esterne degli uni e degli altri che non si può non pensare alla separazione delle carriere. È anche giusto ricordare che gli inquirenti per la loro attività mettono a repentaglio la stessa vita, non così per i magistrati giudicanti. Tutto ciò dimostra la diversità profonda delle due attività che, una volta di più, non possono rimanere insieme.

Significa che dovranno esserci due sistemi di autogoverno?

Sì, uno certamente autonomo per i giudicanti e l’altro per gli inquirenti. Si potrebbe pensare nel Csm ad una parità tra togati e laici. Il Parlamento dovrebbe attivarsi a maggioranza in questo senso nell’organizzazione dei pm perché è un’attività in nome e per conto dello Stato, non del popolo.

twitter@FDepalo

 

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