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Il paladino dell’austerità espansiva

Improvvisamente ci ha lasciato ieri Alberto Alesina, economista italiano, docente ad Harvard. Milanese, bocconiano, editorialista de Il Sole 24 Ore e del Corriere della Sera, ispiratore di tendenze pro-mercato anche nella sinistra italiana e controverso autore di saggi accademici e volumi divulgativi.

Una scomparsa che giunge in un momento particolare. Proprio quando Angela Merkel, paladina dell’idea dell’austerità espansiva (così cara ad Alesina, che ne è stato uno dei massimi sostenitori) nel caso della crisi dei debiti sovrani del 2010-2012, ha cambiato orientamento, sposando l’idea che da questa crisi di oggi si esce solo con una reflazione congiunta.

Un colpo al cuore per chi ha fatto del mantra dell’austerità il suo credo scientifico e sua linea guida di indirizzo della politica economica. Un colpo al cuore, purtroppo, non solo metaforico quello che ha colpito il collega. Un brutto scherzo del destino.

Un credo – quello delle virtù dell’austerità espansiva ­– che, secondo Krugman, avrebbe avuto una grande influenza sulle scelte di politica economica in Europa nell’ultimo decennio. In un comprensibile ma sopravvalutato giudizio sul ruolo degli economisti nella formazione della politica economica. Un giudizio che dimentica come i politici siano sempre pronti a selezionare cinicamente dall’accademia le teorie che meglio sostengono le proprie scelte. Anche nel caso europeo, dunque, saremmo propensi a ritenere che Alesina e i suoi studi sull’austerità espansiva siano stati più che altro uno strumento di una propaganda politica a sostegno di decisioni già assunte, piuttosto che illuminante ispirazione per guidare le scelte pubbliche.

Tanto è vero che, una volta messe in evidenza delle inconsistenze logiche in alcuni suoi lavori sul tema, nessun politico ha mostrato l’intenzione di cambiare idea. La svolta reflattiva di oggi è unicamente figlia del Covid-19; non certo dei dubbi sollevati dalla comunità scientifica sui fondamenti teorici delle presunte virtù espansive dell’austerità.

Chiedersi se l’austerità faccia bene o male alla crescita è una domanda insensata, posta in questi termini generali. Perché ci sono contesti istituzionali e situazioni congiunturali in cui una riduzione della spesa è essenziale per far ripartire l’economia in maniera efficiente. E situazioni in cui l’austerità deprime ulteriormente le aspettative e, con esse, la fiducia degli operatori economici (consumatori e investitori), tanto da far abbassare ulteriormente le potenzialità di crescita.

La risposta degli attori economici alle crisi è incerta, non agilmente guidabile; affidata più ad umori che ad indicatori analitici sui quali agire in maniera meccanica, sperando in un determinismo di reazioni assolutamente irrealistico. Dovremmo averlo imparato nel 1929 e con la successiva Grande Depressione. Così come dovremmo averlo imparato con la crisi finanziaria del 2007; poi divenuta in Europa una crisi dei debiti sovrani. E rischiamo di impararlo nuovamente oggi, con lo shock determinato dall’emergenza pandemica.

Lasciamo quindi riposare in pace Alesina. Senza attribuirgli alcuna responsabilità se l’Italia alla vigilia della pandemia è un paese che non si era ancora ripreso, al contrario di tutti gli altri paesi europei, dalla crisi di dieci anni fa. E se l’Europa ha meccanismi decisionali che impediscono (o almeno sembravano fino a ieri impedire) di varare politiche espansive collettive.

In fondo Alesina, come tutti noi, ha cercato di svolgere al meglio il suo lavoro: quello di fornire solide fondamenta teoriche alle tesi in cui credeva. E che possono, sempre (e vale per qualsiasi tesi), rivelarsi corrette o sbagliate a seconda del momento storico in cui sono sperimentate. Un momento storico dei cui contorni precisi è difficile rendersi pienamente conto, se non dopo qualche tempo.


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