Come si muove la nuova “Guerra Fredda 2.0” che caratterizza oggi le relazioni, sempre meno collaborative, tra Washington e Pechino?
Intanto, qualche dato: la società di cybersicurezza cinese Qihoo 360 ha accusato, solo il 3 marzo scorso, che la CIA avrebbe hackerato molte società cinesi e per più di 11 anni.
Si tratta, quasi ovviamente, di imprese di aviazione, di grandi reti globali internet commerciali, di istituzioni di ricerca e, non potevano certo mancare, anche di agenzie governative cinesi.
Non citiamo nemmeno, qui, le operazioni sulle criptovalute, organizzate spesso da elementi riconducibili al governo di Pyongyang.
Sia il governo cinese che quello Usa, in effetti, utilizzano vari e complessi vettori per operare nella cyberwar: in primo luogo le “società di copertura”, si pensi qui al gruppo cinese APT40 che prende addirittura a nolo gli hackers, come tutti fanno, del resto; poi ci sono le intrusioni per raccogliere dati cyber nelle grandi società multinazionali, o anche nelle agenzie dello Stato, che spesso rimangono bloccate per qualche giorno e, in quella fase, trasferiscono vaste masse di dati al “nemico”. Poi c’è il furto di IP e di segreti industriali. Che, anche questo, tutti fanno.
A meno che non si tratti delle Agenzie italiane, naturalmente, che al massimo possono incaricare una piccola, ma buona società milanese per fare dello hacking, magari sempre secondo le norme di legge, ci mancherebbe.
Sembra ormai che le classi dirigenti italiane siano composte soprattutto da quelli che Gaetano Salvemini, negli anni ’20 del XX secolo, definì “i Paglietta del Foro di Napoli”.
Sul piano militare, gli Usa ritengono che lo Stato Maggiore Unificato cinese abbia oggi la possibilità di colpire bene e rapidamente un qualsiasi sistema C3 avversario (Combat, Control, Communication) e che abbia, inoltre, la possibilità di compiere operazioni belliche automatizzate, ma intelligenti, fin dai primi momenti in cui si verifica uno scontro militare di rilievo regionale e non secondario.
Anche se molti esperti Usa del settore dicano anche che, ancora oggi, gli Usa detengano una migliore base di azione e, forse, alcune tecnologie evolute che potrebbero permettere a Washington una migliore e più ampia azione cyber. Ma non è detto.
Certo, Pechino sa bene che la reazione occidentale, e soprattutto nordamericana, a un duro attacco cyber comporterebbe una reazione ancora più dura, immediata e rovinosa, e contro obiettivi cinesi in Patria e altrove.
Quindi le operazioni parallele e informative di cyberwar le fanno soprattutto i russi: si pensi qui all’attacco alla TV5Monde francese, nel 2015, o contro le società energetiche ucraine, alla fine del dicembre 2015, e anche alla società Sony nel 2014, tramite l’uso di un virus informatico, WannaCry, nel 2017, ma questo fu un attacco cyber attribuito dagli Usa alla Corea del Nord.
Sul piano tecnico-legale, la normativa cinese che sovrintende la cyberguerra propria di Pechino è contenuta soprattutto nella Legge sulla Sicurezza Nazionale del 2015, poi infine nella normativa sull’intelligence del 2017, in cui si stabilisce che le operazioni cyber possono essere condotte sia dal Ministero della Sicurezza Nazionale, il vecchio guoan, che dall’Ufficio per la Sicurezza Interna del Ministero della Pubblica Sicurezza.
Le operazioni verso l’estero, normalmente, riguardano il Centro per la Valutazione della Informazione e delle Tecnologie, in sigla inglese Cintsec, che è parte integrante del Ministero della Sicurezza dello Stato.
A questa rete ufficiale dobbiamo poi aggiungere le altre e autonome reti cyber operanti all’interno dell’Esercito di Liberazione Popolare.
Sul piano geopolitico, la Cina non vuole affatto innescare un conflitto qualsivoglia con gli Usa, anzi, né un conflitto tradizionale o nemmeno uno cyber. Tutt’altro.
Il vero obiettivo di Pechino è oggi quello di eliminare il dislivello tecnologico e operativo tra le due cyberwar, sia sul piano strettamente militare che, soprattutto, su quello economico e tecnologico.
I cinesi sanno che, come diceva Napoleone, “le guerre costano” ed è bene non farne, se le si può evitare. Per gli Usa, la cyberwar serve, ai cinesi, a vincere “guerre locali particolarmente informazionalizzate”.
Sempre per i teorici cinesi, invece, la cyberwar è la vera e unica guerra strategica del XXI secolo, così come accadeva, nel ‘900 alla guerra nucleare. Ovvero, l’area tecnologica e dottrinale che permette di vincere un conflitto di medie e grandi dimensioni e di sedere, poi, al tavolo della Pace con il motto di Fedro, Quia sum Leo.
Anche sul piano globale e commerciale, Pechino intende costruire perfino una grande società privata che possa concorrere alla pari con quelli che a Pechino chiamano “gli otto Kong”: Apple, Cisco, Google, IBM, Intel, Microsoft, Oracle e Qualcomm.
Quindi, sul piano militare, la Cina vuole in primo luogo la sua piena sicurezza del cyberspazio, per garantire quindi la sicurezza delle informazioni critiche, sia delle aree che delle attività economiche. Ma, anche da parte americana, si tende oggi a diminuire il potere di penetrazione cyber cinese, sia in ambito militare che commerciale. Alcuni analisti dicono che la presenza cyber cinese sia stata, negli anni recenti, molto esagerata.
E c’è una operazione di psywar, di guerra psicologica, stavolta di origine sicuramente nordamericana, ma da poco presente in Rete, che oggi ci fa aggiungere un ulteriore elemento analitico sulla guerra cyber delle informazioni e, soprattutto, sull’applicazione dei criteri cyber nella psywar, appunto.
C’è oggi disponibile, nel Web, una sorta di “Rapporto di un Contractor militare”, così si intitola ufficialmente, che rivelerebbe proprio quello che gli Usa vorrebbero sentirsi dire, ancora oggi: che il Covid-19 è solamente un “virus cinese” e che esso è stato pensato e costruito nell’ormai famosissimo laboratorio di Wuhan.
Questo rapporto è stato elaborato dalla MACE, una precedentemente ignota Multi-Agency Collaboration Environment, un gruppo di esperti, cyber e non, il cui sito è solo parte della Sierra Nevada Corporation.
Che è comunque un contractor rilevante, oggi, del Ministero della Difesa Usa. Il solito “centro esterno”, quindi, a cui far dire cose che sarebbe irragionevole affermare direttamente.
Il rapporto afferma di basarsi su evidenze legate ai post presenti intra-e-extra Rete social, sia del laboratorio che dei suoi dipendenti, poi sui dati forniti dai satelliti non-militari, infine sui dati di posizionamento dei cellulari.
Il tutto per arrivare a dire che è successo “qualcosa”, di casuale probabilmente, ma comunque di estremamente grave e di incontrollato nel Laboratorio di Wuhan, unicamente riguardo al virus del Covid-19.
È una fase ulteriore della tecnica di disinformazione moderna: prima si è detto che il virus è uscito scientemente dal laboratorio dello Hebei, ora si sottolinea che è magari “scappato” involontariamente dalla sua gabbia microscopica.
Facile qui intuire cosa si vuole comunicare davvero: anche se il governo cinese non fosse responsabile, le cause per il risarcimento internazionale sarebbero comunque possibili.
Oggi, almeno in Occidente, la disinformazione si fa prima colpendo duramente l’avversario, poi magari scusandosi di aver detto qualcosa di impreciso o errato. Una tecnica da guerra psicologica che crea l’”aura” del caso senza poi sostenerlo. Pericolosissima.
Una tattica davvero pericolosa, diremmo, soprattutto in presenza di una Rete sempre più evoluta. Ma il documento non riporta, per esempio, esattamente sette, ben sette collocazioni di telefoni cellulari e istituzionali all’interno del Laboratorio di Wuhan, una falla troppo grande per essere casuale.
Poi, il Mace afferma inoltre che una intera conferenza interna al laboratorio dello Hebei sarebbe stata “cancellata”, a causa di una non meglio definita calamità, mentre, sempre nei documenti del laboratorio, ci sono fotografie con data interna evidente che riguardano proprio questo evento, la conferenza del novembre 2019.
Una di queste immagini è stata reperita anche nei social di uno scienziato pakistano che vi aveva partecipato. Pure le foto aeree prodotte dalla ditta Maxar Technologies sono indice di una evidente e normale riparazione di strade, non certo di blocchi stradali specifici, posti a causa di un evento imprevisto e gravissimo.
Il presidente Trump ha affermato, qualche giorno fa, che il “virus è uscito dal laboratorio perché qualcuno è stato stupido”. Troppo facile e, credo, inutile anche per una causa legale e assicurativa contro lo stesso Governo cinese.
Peraltro, questi sono i dati, più o meno manomessi, ma che sono stati certamente utili per organizzare la teoria “colpevolezza cinese” per lo scoppio della epidemia e poi della pandemia, proprio nelle more della grande “acquisizione dei dati dell’intelligence” affermata da Trump e Pompeo.
Il tutto, ripetiamo, per verificare senza dubbio alcuno la colpevolezza, dolosa o colpose, del governo cinese nello scoppio della pandemia da coronavirus. E quindi per bloccare lo sviluppo della Cina e farla arretrare, con costi legali colossali, da un tasso di sviluppo che era già a portata di mano.
Peraltro, mancano nel suddetto rapporto della Mace alcuni dati che, da noi, si chiamerebbero di semplice intelligence culturale: non sapere, per esempio, che la prima settimana di ottobre è una settimana “d’oro” per i cinesi, ovvero è la Festa Nazionale, dove si commemora la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, annunciata da Mao Zedong in un celeberrimo discorso sulla Piazza della Pace Celeste, con una frase ancora più celebre: “il Popolo cinese si è alzato in piedi!”.
Come si fa a non saperlo, credendo pure di essere uomini di intelligence? Stessa cosa è accaduta con un report Usa sulla questione coronavirus passato dalle Agenzie Usa a quella australiana, poi subito pubblicato su un quotidiano di Sydney. Certo, tutti fanno anche documenti “manipolati” per diffamare l’avversario, ma c’è modo e modo di farli.
Ma, sul piano più seriamente dottrinale, la questione ci riporta all’analisi, datata 1999, elaborata dai duo ormai famosi colonnelli della ALP, Quiao Lang e Wang Xiangsui, intitolata, in inglese, Unrestricded Warfare. Il suo tiolo italiano fu “Guerra senza limiti. Era un manuale di quello che oggi chiameremmo guerra asimmetrica”.
Oggi, Quiao Liang pensa che, anche in questa fase dello scontro, la guerra sia ancora legata all’industria manifatturiera. Ovvero, puoi avere una ottima ricerca scientifica, una buona rete di centri di ricerca, ma se non traduci tutto questo in realizzazioni industriali di massa e di rilievo allora, come dice appunto Quiao Liang, “hai vinto una medaglia ma niente più”.
Gli Usa, dice sempre Liang, stanno, quindi, mangiandosi le loro scorte, sia di armi che di attrezzature industriali. E, tanto più aumenta la crisi da coronavirus, e misurando la scarsissima reazione efficace del sistema economico e sanitario Usa, allora sempre più aumenta il consumo di scorte militari-civili nordamericane ma diminuisce, inoltre, e più che proporzionalmente, la capacità di produrle.
Quindi, gli Usa hanno ancora una industria manifatturiera e di massa, oltre che la capacità di trasformare l’evoluzione tecnologica in prodotti di massa, per fare ma, soprattutto, per proseguire fino alla vittoria in una guerra, sia essa asimmetrica che convenzionale?
Il generale cinese sottende la sua risposta, che è no. Per la Cina, l’unica soluzione ragionevole, oggi, per il nostro generale dell’Aria, è quella di espandere il proprio apparato produttivo, ma non sottovalutare mai la industria manifatturiera “tradizionale” a medio-bassa tecnologia, che è quella che riproduce ed espande le forze produttive e permette la durata nel tempo, che è l’unica vera garanzia di vittoria.
Non si mangiano i prodotti del fintech, ma i pomodori californiani e la carne del Midwest. Chi vuole collezionare gioielli tecnologici lo faccia, certo, e anche la Cina, dice sempre il generale, deve farlo, ma occorre ancora e sempre la grande produzione di massa, e di cose che in tutto il mondo sono diventate, guarda caso, scarse: le mascherine, i respiratori, il cibo, le infrastrutture tradizionali, i mezzi di trasporto.
Se si crede che la guerra e l’economia siano uno scenario da supereroi, bene, ma si si deve vincere, ovvero “durare un minuto dopo l’avversario”, allora occorre ritornare a una civiltà di massa, industriale, stabile e in crescita per la sua economia “reale”.
Il mito dell’alta tecnologia quale chiave di tutto, indotto dal tipo di sviluppo industriale degli Usa attuali, ha fatto perdere a tutti gli altri, nel mondo, il senso vero della modernizzazione, termine-chiave del discorso politico cinese, da Deng Xiaoping a oggi e in futuro.
Non si può pensare ad una civilizzazione futura in cui la verticalizzazione sociale è tale che a una quota poco più piccola dell’1% di over-rich segue l’impoverimento verticale di tutti gli altri.
Un impoverimento di massa che crea, peraltro, una contrazione della produzione manifatturiera che viene spedita, poi, nei Paesi del “Terzo Mondo”, per innescare un processo di piramidizzazione sociale che ha scarsi corrispettivi nella storia umana. E a cosa serve? A spendere inutilmente il mad money prodotto dal fintech?
Quindi, occorre per il generale cinese un decoupling degli Usa dalla Cina, come predicano tutti gli economisti vicini alla Casa Bianca, per evitare che la Cina si prenda tutti i brevetti di maggior rilievo tecnologico e della Difesa, ma anche la Cina, per l’alto ufficiale delle Forze dell’Aria, non deve affatto fare il decoupling dagli Usa, che non serve per l’alta tecnologia, ma semmai evitare di fare lo stesso di Washington a livello di massa.
Se c’è il decoupling, come predicano gli economisti Usa attuali, allora i prodotti cinesi diverranno più competitivi rispetto a quelli Usa e Usa-connessi, e quindi cadrebbe a breve l’egemonia monetaria degli Usa e, allora, anche il suo doppio uso del dollaro, quello che fece dire a un vecchio presidente della FED ai suoi colleghi europei: “il dollaro è la nostra moneta e il vostro problema”.
Quindi, sarà anche impossibile, alla lunga, lasciare che la Cina con le sue produzioni a basso costo, venga sostituita da Vietnam, Myanmar, e dagli altri Paesi della “collana di perle” del Sud-Est asiatico.
Se poi, dopo la crisi da coronavirus, ci sarà una ulteriore robotizzazione della forza-lavoro, allora come si farà a mantenere numerosi e sufficientemente alti i salari, che dopo la pandemia saranno distribuiti, ovviamente, a un numero minore di lavoratori disponibili?
Salari bassi, allora anche scarsi introiti fiscali, quindi crisi della spesa dello Stato e, inoltre, diminuzione delle spese sociali e di quelle militari, soprattutto nel settore, sempre ad altissimo costo unitario, dell’alta tecnologia. Per riassumere, l’Impero è in grave pericolo.
E noi, come dice il generale cinese, “non dobbiamo danzare con i lupi”, ovvero, non dobbiamo seguire, per raccoglierne solo i frutti tecnologici, il ritmo della danza degli Usa, ma mantenere ed espandere la grande produzione manifatturiera, e evitare soprattutto di assumere i tratti culturali, industriali, scientifici perfino, degli Usa, che il generale cinese vede alla fine del loro ciclo di civiltà.
Un “Paese che è passato direttamente dagli albori alla decadenza”, per usare la vecchia formula di un ambasciatore francese, ecco gli Usa per gli analisti cinesi attuali.
Allora, occorre cercare, per Pechino, di risolvere autonomamente la questione di Taiwan, poi anche contrastare duramente le azioni contro Huawei, rispondendo colpo su colpo con le società Usa in Cina, IBM, Cisco, etc., bloccando le loro attività in Cina, se ne è del caso. Altro che guerra ibrida.
Qui siamo a una guerra commerciale e quasi-convenzionale tra due Potenze, l’una antica e occidentalista, l’altra asiatica che però non vuole affatto farsi chiudere nel Pacifico, come presuppongono proprio i nuovi progetti di chiusura militare Usa dell’Oceano, dalla California al Giappone, o che tentano di bloccare l’espansione della Via della Seta, o che ancora tentano di bloccare la linea dell’espansione a Sud e a Est della Cina, come ha recentemente preconizzato Xi Jinping.
Certo, la Cina non è oggi indietro sulla questione della cyberwar. Ma non la vuole utilizzare come sostituto di una guerra convenzionale o di psywar per le tecnologie dual-use, non per giocare alla sconfitta totale di un ipotetico “nemico”.
Pechino ha oggi a disposizione il Terzo Dipartimento dell’Armata del Popolo, la rete dedicata per la Cyberwar interna al PLA, ma anche la Forza di Supporto Strategico.
Sarà questa la nuova “Guerra Fredda 2.0”: una serie di azioni di guerriglia informatica, economica, industriale, di defamation, specificamente militare, di informazioni riservate da rubare in un decimo di secondo al nemico, di manipolazione culturale e, alla fine, ma solo alla fine, di fake news.