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Phisikk du role – Pubblicità e virus. E se la retorica del bene facesse male?

L’homo consumens è ciò che la pubblicità, pezzo pezzo, un giorno via l’altro, scava dentro di lui. Può essere l’uomo Mulino Bianco, tutto lindo e pinto nel suo bozzolo da favola americana con moglie bella ed elegante, figli belli e intelligenti, casa bella ed ecologica, cane bello e scodinzolante d’affetto e biscotti sorridenti come tutto il resto.

Può essere l’uomo-che non-deve-chiedere-mai, ovviamente bello anche lui ed impossibile, in più rude e autodotato, e che auto e che folla di pupe, tutte in fila adesso che si è fatto la barba e fa il sorrisetto assassino.

Può essere l’uomo-prostamol, quello che ha esaurito tutte le bugie per andare di notte a fare “plin-plin” senza destare sospetti prostatici, uno di quelli che Colao cementerebbe in casa fino alla fine dei tempi, e che, invece, con la pillola ridiventa giovanotto appena brizzolato e fa lo splendido con la sua giovanotta, brizzolata anche lei, ma bella come Sharon Stone a sessant’anni e passa.

Trascuro, per rispetto di genere, di considerare in modo ravvicinato il catalogo delle donne in pubblicità rammentando solo che nei libri di psicologia dell’advertising viene chiarito sufficientemente come, per vendere un prodotto, l’immagine più trainante resti sempre quella di una bella donna, preferibilmente in abiti discinti, sia che si parli di elettrodomestico che di acqua minerale o della qualunque.

La pubblicità è politica? Altro che! In quanto captatrice dell’aria che tira e induttrice di bisogni: quanto del pantheon pubblicitario passato per le reti Mediaset (all’epoca Fininvest), a cominciare dalla narrazione, appunto, della bellissima famiglia Mulino Bianco, ha nutrito l’immaginario “politico” del primo Berlusconi, quello della “discesa in campo”? Direi tutto. O quasi.

La domanda che sorge spontanea, allora, è: come si fa a vendere pubblicità quando non si può comprare più perché c’è in giro il killer dell’anno formato Covid-19? Ebbene, dapprima uno shock: il loop programmato di spot partiti ante-pandemia, che inneggiavano a libertà di corsa in macchina, apericene smaglianti con promiscuità sensuali e tutto l’ambaradam noto che fa vendere assai, atterravano in modo surreale nelle case di italiani paralizzati dalla paura mentre in giro, per le città deserte, andavano le macchine del comune a gracchiare coi megafoni roba da film-catastrofisti anni Ottanta.

Nel giro di un paio di settimane, però, ecco una giravolta carpiata fatta tutta di charity ed etica a gogo’, hashtag #celafaremo-andratuttobene-vivalitalia, inni nazionali e tricolori in quantità industriale tendenti a inumidire l’occhio del telespettatore – immerso, sono dati scientifici, in full immersion di cinque, sei ore di nutrimento quotidiano di pane e tv – proclive al sentimento.

La regola è stata: mai anteporre il brand che si vuol promuovere alla narrazione etica, fatta di cartoline della bell’Italia, abbracci di solidarietà, giochi di luce bianco/rosso/verde, messaggi del tipo “adesso siamo fermi pure noi, ma tra poco ripartiamo insieme e sarà una grande ripartenza”, insomma patriottismo e spirito identitario avanti a tutto. O anelito all’universalità di chi, per notorietà del brand e per disponibilità dei mezzi, ha potuto permetterselo: la spinta emozionale dello spot di Lavazza, per esempio, che ha puntato su Charlie Chaplin del Grande Dittatore, per parlare all’Umanità intera. Mica roba da niente. Profluvi di ringraziamenti sono caduti addosso a medici, infermiere, banconisti e commesse, un po’ da tutti e, in particolare, da catene di supermercati con bandiera italica incorporata, mentre gli alacri artigiani delle poltrone, quelli sempre in giro per l’Italia ad aprire negozi, con la solita faccia soddisfatta ricordavano che sì, è ancora dura per tutti, ma insomma, siamo vicini all’uscita dal tunnel.

L’idea della ripartenza se la sono passata tutte le agenzie, ma ha funzionato di più con le auto, che, insomma, con la partenza hanno a che fare. Interessanti e belle le città vuote raccontate dalle voci fuori campo: riparatoria quella di Milano, dopo quella di un paio di mesi fa, Milano non chiude, che è costata parecchio. E non solo per le spese pubblicitarie. Difficile, però, scrollarsi di dosso la sensazione di un che di posticcio, di stereotipato, del tributo necessario al politically correct, che, se non lo dici e non lo fai sei fuori. Ecco: la banalizzazione del bene con la retorica, alla fine, può far male.



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