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Cosa lega Aldo Moro e Paolo VI. Una storia di convergenze parallele

Il 9 maggio del 1978 veniva ritrovata la Renault 4 rossa nel cui bagagliaio giaceva il corpo senza vita di Aldo Moro. Nonostante sia stato due volte presidente del Consiglio e più volte ministro, la figura dello statista di Maglie è fissata nell’immaginario collettivo soprattutto per i 55 giorni del suo sequestro conclusosi tragicamente.

Di conseguenza, del suo rapporto con Paolo VI si parla spesso in relazione al drammatico appello agli “uomini delle Br” del pontefice bresciano e all’ultima lettera scritta nel covo dal prigioniero con quell’amaro finale; “il papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo”. Di quella pagina nera della storia repubblicana restano indelebili le immagini del papa, già malato e fortemente provato dal dramma, che ricorda quell'”uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico” in un funerale di Stato senza salma, disertato dalla famiglia del defunto.

Amico di studi e fratello di fede; così Montini lo definisce nella lettera con cui prega in ginocchio i terroristi rossi. Termini rivelatori del rapporto di consuetudine duraturo tra i due rievocato dallo stesso Moro in una delle lettere indirizzate al “Beatissimo Padre” in cui ricorda la “paterna benevolenza” dimostratagli “tante volte” sin dai tempi in cui era un “giovane dirigente della Fuci”. A dispetto di quanto si crede generalmente, l’impegno dello statista pugliese nella Federazione è successivo all’allontanamento di Montini dal ruolo di assistente nazionale. Ma la Fuci in cui entra Moro nel 1935 conserva una spiccata impronta montiniana (e righettiana), riluttante a qualsiasi compromissione ideologica e culturale con il regime e determinata a formare una futura classe dirigente cattolica integerrima nella fede, ma aperta nell’apologetica. Divenuto sostituto della Segreteria di Stato, il futuro Paolo VI non smette d’interessarsi al mondo dell’associazionismo e benedice l’ascesa del giovane pugliese che nel 1939 viene nominato successore di Ambrosetti alla presidenza della Federazione.

Moro guida la Fuci nei primi anni di guerra fino al 1941, quando – richiamato alle armi – è costretto a lasciare il timone a Giulio Andreotti. La carriera pubblica del futuro leader Dc nasce, dunque, sotto l’ala protettrice di Montini che nel Dopoguerra ‘”sponsorizza” la sua candidatura, in quota di segretario del Movimento laureati, nelle liste democristiane all’Assemblea Costituente. Sono gli anni in cui da Pro-segretario di Stato, Montini è il consigliere più ascoltato da Pio XII e può permettersi di “coprire le spalle” a Moro e agli altri “professorini” che in sede costituente creano più di un fastidio alle gerarchie ecclesiastiche. La stima reciproca tra i due non deve far pensare ad una comunanza di vedute su tutto: non a caso, quando De Gasperi gli chiede il nome di un giovane da nominare sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel suo IV governo, l’allora pro-segretario di Stato preferisce fare quello di Andreotti.

Quando Montini cade in disgrazia agli occhi di Pio XII e viene spedito a Milano come arcivescovo senza porpora, Moro è già un pezzo da novanta della Dc, al punto da ricoprire l’incarico di presidente del gruppo parlamentare. Ed è sbagliato credere che il futuro Paolo VI sia la sponda ecclesiastica dello stratega dell'”apertura a sinistra”: nel 1962, quando da segretario della Dc avvia un sondaggio tra i vescovi italiani ritenuti più possibilisti sul centrosinistra, la proposta di Moro ottiene un giudizio negativo dall’allora successore di Sant’Ambrogio già contrario l’anno precedente alla formazione della giunta con i socialisti (definiti “social-comunisti”) proprio a Milano.

Allo stesso modo, una volta eletto al soglio pontificio, Paolo VI esprime preoccupazione per l’avvio della stagione del compromesso storico di cui il suo ex allievo fucino è il principale artefice. Paradossalmente, il processo di autonomizzazione della Balena bianca dal controllo ecclesiastico viene portato avanti dallo statista di Maglie proprio durante il pontificato di colui che – come diceva Cossiga – si considera il “segretario politico mancato” della Dc. Questo non inficia l’affetto e la stima emersi pubblicamente durante i 55 giorni del sequestro. La loro stessa morte, così ravvicinata, sta lì a dimostrare fino all’epilogo finale l’esistenza di “convergenze parallele” tra le vite di queste due grandi figure del Novecento.



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