L’annuncio del ministero dell’Interno tedesco di aver vietato tutte le attività di Hezbollah e le organizzazioni a essa legate segna un momento chiave nel contrasto al terrorismo internazionale. Si rimuove soprattutto quella assurda dicotomia che molti Paesi, inclusa la stessa Unione europea, ancora decidono di accordare al cosiddetto “Partito di Dio”. Hezbollah ha per lungo tempo trovato in Germania un rifugio sicuro e un’ottima base operativa per attività di intelligence, attacchi terroristici, raccolta fondi e altre attività criminali, su tutte quelle di riciclaggio e narcotraffico. La decisione di Berlino è quindi un passo molto importante per frenare la “lunga mano” del principale sponsor di Hezbollah, l’Iran, oltre i suoi confini. In questo modo la Germania si unisce a Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Israele, Giappone e Paesi Bassi nell’affermare che l’intera organizzazione di Hezbollah è inequivocabilmente un’entità terroristica.
Ed è proprio per l’Ue che questa decisione dovrebbe agire da volano affinché Bruxelles compia il passo da molto tempo atteso. Paradossalmente, le Istituzioni europee, a cominciare dall’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, hanno sinora negato proprio quanto Hezbollah per voce dei suoi più alti rappresentanti da sempre rivendica: l’unicità dell’organizzazione.
Lo ha affermato nel 2012 il vice segretario generale di Hezbollah, Naim Qassem: “Non abbiamo un’ala militare e una politica”. Lo gridano i curricula dei suoi leader: l’ex segretario generale, Abbas Al Musawai ha iniziato la carriera sui campi di battaglia prima di raggiungere il vertice politico. Lo stesso è accaduto per Hassan Nasrallah, attuale segretario generale, il quale non nasconde la sua personale soddisfazione nel vedere in Hezbollah soprattutto l’esempio di organizzazione militare su grande scala, con decine di migliaia di uomini perfettamente addestrati, reclutati anche tra le comunità sciite in Afghanistan, Pakistan, Medio Oriente, con un arsenale missilistico gigantesco e armamenti modernissimi.
Nel caso ci si volesse chiedere come possa un’entità “politica” disporre di tali dotazioni militari, la risposta è soltanto una: lo si deve alla Repubblica islamica dell’Iran. Ed è sempre Nasrallah a confermare che “Hezbollah, le sue entrate, le sue spese, tutto ciò che mangia e beve, le sue armi e i suoi razzi provengono dall’Iran”. Hezbollah, come altre milizie formate dal regime iraniano, ha una rilevante proiezione multinazionale e non più libanese soltanto. Opera in Libano da inizio anni Ottanta, in Iraq, con Kataib Hezbollah, e in Siria da quasi un decennio, insieme ad altre forze paramilitari specializzate in ethnic cleansing e eliminazioni mirate; si collega alle iniziative di sostegno iraniano agli Houti in Yemen, e a molte attività di terrorismo internazionale, guerriglia, traffici e criminalità organizzata che raggiungono Paesi lontani, come il Venezuela e altri Paesi latinoamericani.
In quest’ottica non può passare inosservato come anche in Italia, permanga una visione pericolosamente distorta sull’argomento, che si rispecchia nelle dichiarazioni di alcuni esponenti del Movimento 5 stelle, i quali ritengono Hezbollah come “parte del popolo libanese, e quindi i suoi appartenenti non possono essere etichettati come terroristi”. Quello che invece si nasconde dietro al “Partito di Dio” è l’espressione di quel progetto egemonico messo in atto da Teheran per espandere la propria influenza su tutto il Medio Oriente, e non un fenomeno meramente locale.
Date queste premesse, l’incontro a Roma dello scorso anno tra il viceministro degli esteri iraniano Gholamreza Ansari e il sottosegretario agli Affari esteri italiano Manlio Di Stefano (M5s) è stato un passo quanto meno assai improvvido. L’incontro ha significato un ulteriore legittimazione della strategia del terrore portata avanti da Hezbollah in Medio Oriente e in Europa, specialmente dopo che indiscutibili prove sono emerse sugli attacchi terroristici e le uccisioni pianificate negli ultimi anni dall’intelligence iraniana. Di Stefano ha inoltre sottolineato che il suo incontro è stato “un’opportunità per evitare un eccessivo adeguamento (overcompliance) alle sanzioni statunitensi delle imprese private”: ignorando così le preoccupazioni del FATF/GAFI (il Gruppo d’azione finanziaria nato su iniziativa del G7, ndr) circa i finanziamenti iraniani al terrorismo.
Lo stesso Di Stefano che, in occasione della risoluzione del Parlamento europeo per il riconoscimento di Juan Guaidó come presidente legittimo ad interim del Venezuela, dava questa “singolare” motivazione: “L’Italia non riconosce Guaidó perché siamo totalmente contrari al fatto che un Paese o un insieme di Paesi terzi possano determinare le politiche interne di un altro Paese. Si chiama principio di non ingerenza ed è riconosciuto dalle Nazioni Unite”. Nessuna parola invece circa la penetrazione di Hezbollah, e quindi dell’Iran, in un Paese martoriato ormai da lungo tempo da una grave emergenza umanitaria e con il potere ancora saldamente in mano al despota Maduro in quello che gli Stati Uniti definiscono come Stato-mafia.
La crescente sintonia tra Venezuela e Iran si esprime su diversi ambiti: militare, paramilitare, propaganda antiamericana, politica e anche commerciale come nei casi di numerosi pozzi di petrolio gestiti da Teheran. Ed è notizia proprio degli ultimi giorni che Nicolás Maduro abbia voluto affidare la guida del ministero del Petrolio a Tareck El Aissami, chavista della prima ora, figura chiave del regime di Maduro – di cui è stato anche ministro dell’Interno e vicepresidente – e su cui pende una taglia di 10 milioni di dollari emessa dagli Stati Uniti a seguito di gravi accuse di narcotraffico, a cui contribuisce anche Hezbollah con suoi proxy.
La sua nomina, nonostante le scarse competenze in ambito petrolifero – dopo il licenziamento del generale Manuel Quevedo ritenuto non all’altezza nel contrastare la crisi catastrofica del settore – assume però un chiaro significato nelle relazioni sull’asse Caracas-Teheran. Il Venezuela per ovviare all’embargo statunitense sulle importazioni di idrocarburi sta cercando di convertire le proprie raffinerie per poter così produrre autonomamente carburante.
In questo l’Iran sta provvedendo all’invio di operai e attrezzature necessarie per riattivare una delle più grandi raffinerie del Paese. Si è infatti assistito negli ultimi tempi a un vero ponte aereo tra i due Paesi – nonostante le severe restrizioni ai voli imposte da Maduro a causa del Covid-19 – operato dalla compagnia iraniana Mahan Air, tristemente nota per essere il vettore dei miliziani e degli armamenti della Forza Quds, il reparto di élite della Guardia rivoluzionaria comandato da Qassem Soleimani, così come membri di Hezbollah, per affiancare i reparti di Bashar Al Assad nel massacro della popolazione siriana.
Mahan Air, sanzionata dal 2011 da Washington proprio per il sostegno al terrorismo internazionale, ha solcato fino a pochi mesi fa i cieli italiani con numerosi voli da Milano e Roma. Un pericolo per le società che gestiscono i due principali scali italiani, ma anche per la sicurezza nazionale, che sembrava scampato dopo la decisione dell’Enac di vietarne la presenza. Sembrava perché la copertura di quelle rotte è stata rimpiazzata da un’altra compagnia soggetta alle stesse americane, la Iran Air, a cui il nostro Paese ha deciso di affidare il rimpatrio dei nostri connazionali presenti in Iran, tramite voli commerciali con il concreto rischio di finanziare l’azione destabilizzante portata avanti dal regime degli ayatollah non solo in Medio Oriente ma, come abbiamo visto, in sempre più ampie parti del mondo.
Hezbollah non distingue tra ali militari e politiche. Né dovrebbe nessun altro. Di conseguenza, anche gli altri Paesi Ue — in particolare l’Italia — e il resto della comunità internazionale per un’efficace e concreta azione di contrasto al terrorismo internazionale, devono porre fine alla loro distinzione fittizia tra le “ali” del Partito di Dio e seguire l’esempio della Germania vietando il gruppo nella sua interezza.