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In vista del Consiglio europeo

L’enorme immissione di liquidità delle ultime settimane (e quella che si annuncia per il prossimo futuro) sembra non preoccupare gli analisti economici e finanziari. Ancora meno coloro che hanno sempre inneggiato ad una politica espansiva per risolvere tutti i mali e le arretratezze di un sistema economico come quello italiano, che ha ben altre cause (purtroppo in larga parte strutturali; e non soltanto economiche).

Personalmente, credo invece che dovremmo porre maggiore attenzione ai pericoli che questa iniezione di liquidità comporta: sia nel breve periodo, sia nel lungo; per ragioni diverse.

Ci sono almeno due modi per registrare i fenomeni correlati all’aumento, in un sistema economico, di risorse monetarie e fiscali (e le diverse propensioni di ciascun paese a generare inflazione, i cui differenziali impattano in maniera decisiva sulla competitività relativa delle industrie, quindi sulle esportazioni e sul ‘successo’ economico dei vari paesi): gl’indici del costo della vita e il peso del debito pubblico.

Il primo è intuitivo. Se aumenta il costo della vita significa che i cittadini hanno un paniere di beni a disposizione più caro: a parità di reddito possono acquistare meno prodotti. In presenza di beni primari, non c’è modo di evitare l’inflazione, visto che per definizione sono beni di cui non possiamo fare a meno. Per i beni non di prima necessità si può decidere di astenersi dal consumo. Questa logica è tuttavia estremamente pericolosa, perché riduce il paniere di consumo all’essenziale; un ‘essenziale’, è bene ricordarlo, che dipende essenzialmente da ciò che ciascun individuo in una data società in un dato momento storico ritiene essenziale. E qui potremmo avere delle sorprese.

Potrebbe emergere che i beni ‘essenziali’ sono dalla maggior parte delle persone considerati uno smartphone, una connessione efficiente ad internet da casa, un’auto per spostarsi in zone (e sono tante) nelle quali il sistema dei trasporti pubblici è inefficiente, etc. Insomma, beni normalmente non considerati essenziali (e per i quali non vengono rilevati indici dei prezzi). Potrebbe emergere, in modo solo apparentemente paradossale, che si rinuncia al pane ed al latte (tradizionali beni primari), o ad una visita dal dentista e dal ginecologo, ma non ad una settimana di ferie al mare (magari a basso costo) o alla cena in un ristorante (un’osteria, meglio) perché ci danno la soddisfazione di non sentirci proprio alla stregua di animali che lottano per la mera sopravvivenza.

Beni sui quali è difficile effettuare un controllo sociale/politico dei prezzi. Se già è difficile controllare il prezzo del pane e del latte, figuriamoci dei beni che dipendono dalle condizioni e le forme del mercato. Non è detto tuttavia che questa inflazione si manifesti, se i prezzi dei prodotti non entrano nel paniere ISTAT. Sarebbe allora un’inflazione nascosta, invisibile alle statistiche ed agli indici ufficiali. Ma rappresenterebbe pur sempre una diminuzione delle opportunità di consumo (quindi della domanda aggregata, con effetti negativi sul reddito).

Eppure, è più facile che siano proprio questi, i beni il cui prezzo aumenterà. Gli esercizi commerciali rimasti chiusi per due mesi, che poi si ritrovano, a causa delle misure di distanziamento sociale e dei costi del lockdown (prestiti ponte, etc), ad avere ricavi continuativamente minori, avranno la tentazione di scaricare sui prezzi l’ansia da rigenerazione dei profitti. Quelli che hanno l’opportunità di farlo, perché si muovono in un mercato di concorrenza monopolistica (in sostanza in nicchie nelle quali la domanda è tutto sommato abbastanza rigida), avranno dei margini che gli consentono di ripartire. Ma a scapito di un pubblico che si troverà a pagare di più per servizi identici all’anno precedente. Con una diminuzione della domanda.

Chi invece opera in un mercato genuinamente concorrenziale, non potrà agire sul prezzo e rischierà di non sopravvivere. In tal modo si creerà una contrazione dell’offerta che potrebbe riequilibrare il calo della domanda, ma ad un livello dell’attività produttiva e dell’occupazione inferiore, con effetti potenzialmente devastanti a livello sociale e/o sulle finanze pubbliche (attraverso gli ammortizzatori sociali). Nella migliore delle ipotesi, si verificherebbero delle storture che determinano eccessi di domanda in alcuni settori (concorrenziali) ed eccesso di offerta in altri (non concorrenziali), con un riequilibrio a livello macro che sarebbe possibile al prezzo di spostamenti massicci di lavoro fra settori ed aree geografiche. Nella peggiore, l’effetto complessivo sarebbe una paradossale diminuzione della domanda.

Veniamo al secondo modo per leggere gli effetti dell’aumento delle risorse monetarie: il debito pubblico. In Italia il tasso d’inflazione è stato a due cifre per oltre un decennio, tra gli anni Settanta e Ottanta; con un rapporto debito/Pil tutto sommato limitato (rispetto ad oggi). Quando abbiamo iniziato a tenere sotto controllo l’inflazione, il debito pubblico è esploso. La ragione è semplice: gli appetiti politici sulla spesa pubblica governativa sono sempre stati considerevoli. Per un certo periodo, questi appetiti sono stati occultati dalla Banca d’Italia, che acquistava a tassi privilegiati il debito pubblico del Tesoro scaricandone gli effetti sull’inflazione (creava moneta per comprare la spesa pubblica del governo). Quando, nel percorso verso l’integrazione monetaria in Europa, questo non è più stato possibile, la spesa si è riversata direttamente sull’aumento dello stock di indebitamento, aggravato dall’aumento del costo per il servizio del debito (non più a prezzi di favore della Banca d’Italia ma dettato dai mercati finanziari, sensibili all’aumento del rischio-paese).

Il debito pubblico è quindi (in senso lato) un diverso modo di manifestarsi delle pressioni inflazionistiche. Tanto è vero che i differenziali d’inflazione con gli altri paesi europei, quando (con l’ingresso nella moneta unica) non si sono più tradotti in un innalzamento dell’indice dei prezzi, si sono tradotti in un innalzamento dello spread (la rischiosità percepita dello stock di debito sul PIL).

Gli effetti distributivi sono in entrambi i casi rilevanti. Nel caso dell’inflazione registrata dall’indice del costo della vita si ha una redistribuzione dai percettori di redditi fissi alle imprese (che, almeno parzialmente, ed almeno in alcuni settori, possono scaricarla sui prezzi di vendita, recuperando margini di profitto che perlomeno consentono di alimentare una parte d’investimenti) e dai creditori ai debitori (conviene indebitarsi a tasso fisso, visto che il tasso d’interesse reale tenderà a diminuire grazie all’inflazione); nel caso dell’aumento del debito l’onere passa dalle generazioni presenti a quelle future. Intendendo con questo non solo lo scaricare sui posteri le responsabilità della spesa corrente, ma anche che, nel caso si intendesse (o diventasse necessario) mettere prima o poi un freno a tale aumento di spesa, sarebbe necessario colpire i patrimoni (sui quali, purtroppo ma comprensibilmente, fanno affidamento le generazioni future per sopravvivere). Con effetti, nuovamente e sempre paradossalmente, di diminuzione della domanda.

Ora, per reagire allo shock del coronavirus, la Bce ha giustamente e massicciamente immesso liquidità nel sistema economico europeo. E, sempre giustamente, non era immaginabile limitare questo intervento nel timore di un aumento dell’inflazione. Anzi, sarebbe opportuno, come abbiamo detto sin dall’inizio di questa crisi, che anche i governi intervenissero sul canale dell’espansione fiscale.

Ma c’è un problema: questa massa enorme di mezzi di pagamento denota comunque un processo ‘inflazionistico’; che può materializzarsi sotto forma di aumento dell’indice dei prezzi e/o del debito. Ma che rischia, in entrambi i casi, di portare ad una diminuzione, piuttosto che ad un aumento, della domanda complessiva; rascinandosi oltretutto dietro distorsioni socialmente pericolosissime. Governare al meglio il mix fra questi due effetti, ed impedire che l’esito sia il paradosso di una deflazione indotta dallo stimolo espansivo, sarà decisivo per le sorti dell’economia europea. Ed anche delle singole economie nazionali, ognuna con posizioni di partenza molto diverse.

Si annuncia una lotta di proporzioni storiche per scaricare su ciascuno di questi due canali gli effetti dell’attuale e futura espansione e per evitarne gli effetti collaterali. E se non lo farà con una visione d’insieme, coerente e solidale, l’Europa, in particolare l’eurozona, rischia di frammentarsi definitivamente. Perché le condizioni di indebitamento sui mercati finanziari sono estremamente sensibili al rapporto debito/Pil (cioè sul fatto che le prospettive di crescita di un paese siano coerenti con la restituzione del debito stesso). E per le conseguenze di distributive interne dello shock inflattivo.

Da qui la necessità, in definitiva, di adottare: a livello nazionale un rigoroso controllo dei prezzi relativi; ed a livello europeo un meccanismo (che i governi lo chiamino come meglio riescono a venderlo alle opinioni pubbliche di ciascun paese) che diminuisca l’impatto asimmetrico (fra paesi) dell’espansione, di fatto un debito collettivo utilizzato con scelte d’indirizzo collettive, sottratte alla discrezionalità dei governi nazionali.

Domani intanto vedremo, al Consiglio europeo, se i governi UE saranno capaci di tradurre queste banali considerazioni di buon senso in azioni coerenti di policy.


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