L’epidemia in corso si presta ad una riflessione un po’ distaccata sulla nostra forma di Stato. In molti paesi (dagli Usa alla Spagna al Brasile) si sono manifestati dissensi fra il governo centrale ed i poteri locali, per cui la cosa non stupisce; tuttavia in Italia la cosa ha assunto aspetti non esattamente normali e questo ci induce a considerazioni sull’opportunità di un sistema decisionale così frammentato anche di fronte ad una emergenza di queste proporzioni. Lasciamo perdere la scelta del Costituente ed un giudizio storico sul risultato della forma di Stato adottata – ne parleremo in un’altra occasione – e limitiamoci ad una discussione sul presente, preparato dall’infausta riforma costituzionale del titolo V del 2001 che delegava in toto la sanità alle Regioni.
Con il sopravvenire della pandemia sarebbe stato necessario centralizzare subito la direzione degli interventi, sottraendo ogni competenza in materia di Sanità alle Regioni, commissariando le strutture sanitarie. Ma sia la Legge 6 febbraio 2020 n 6 che il seguente Dl 20 marzo 2020 n 19 non contengono alcuna norma in questa direzione. Si obietterà che questo sarebbe stato incostituzionale ed è vero: sarebbe stato un intervento contrario alla lettera ed allo spirito della Costituzione. Ma va detto che la l.6.2.2020/n 6 è piena di violazioni della Costituzione, dalla possibilità di agire senza intervento del Parlamento, esautorato in più punti, alla sospensione di libertà fondamentali dei cittadini come la libertà di movimento nel territorio della Repubblica e di manifestare, dalla sospensione, salvo casi eccezionali, delle attività giudiziarie (violando l’indipendenza del Terzo Potere) al rinvio di un referendum costituzionale già indetto. Il tutto in nome di una emergenza che, non prevista in alcuna parte della Costituzione, era però presente nei fatti. E si può anche accedere a questa prassi in considerazione dell’eccezionalità del momento e della temporaneità di queste misure, ma, allora, perché non si sarebbe potuto anche sospendere i poteri delle Regioni in materia sanitaria in presenza di una emergenza proprio di ordine sanitario? Le Regioni sono una specie di tabù del nostro sistema politico perché realizzano un equilibrio spartitorio fra le diverse forze politiche e, quindi, fra maggioranza ed opposizione. Un esempio: i numeri dell’andamento dell’epidemia in Lombardia ed il connesso scandalo delle residenze per anziano giustificherebbero ad abundantiam lo scioglimento del Consiglio ed il commissariamento della Regione. Quello di cui neanche si osa parlare (lo ha fatto il solo consigliere Pd Francesco Majorino nel gelo universale).
Il risultato è questa sorta di coro delle oche del Campidoglio, per il quale ogni presidente di regione si sente autorizzato ad esternare liberamente ed a decidere per conto proprio: Zaia e Fontana vogliono la riapertura delle attività produttive il 4 maggio, De Luca e la Santelli minacciano di chiudere le proprie regioni ai rapporti esterni se questo dovesse accadere, Emiliano, al grido di “Prima i Pugliesi” sequestra tutto il materiale sanitario presente sul territorio regionale impedendone il trasferimento parziale in regioni dove potrebbe essercene più bisogno. La distanza di sicurezza cambia da regione a regione: 1 metro, un metro e venti, un metro e cinquanta, un metro e ottanta. Fontana vuole riaprire le attività produttive il 4 maggio ma, intanto, chiude le librerie (ma qui è evidente la convinzione del leghista che pensa che i libri facciano male). Ogni Presidente si sente obbligato a produrre una qualche sua idea originale in materia di orari di apertura dei supermercati, di uso delle mascherine, di distanza massima per portare fuori il cane eccetera, se non altro, per dimostrare di esistere e di non essere da meno degli altri.
Vi sembra una cosa seria?
Forse questa tragedia della pandemia avrà qualche raro riflesso positivo: ad esempio convincere gli italiani ad abolire una volta per tutte l’ordinamento regionale.